Sprechi e malaburocrazia costano all’Italia oltre 225 miliardi di euro l’anno

Studio della Cgia che evidenzia come queste spese inutili potrebbero essere utilizzate meglio, per tagliare le tasse e aiutare la crescita.

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Sprechi e malaburocrazia della macchina pubblica italiana grava su famiglie e imprese per almeno 225 miliardidi euro all’anno. Le regole tortuose e complicate della burocrazia statale, i mancati pagamenti della pubblica amministrazione, la lentezza della giustizia civile, lo spaventoso deficit infrastrutturale, gli sprechi nella sanità e nel trasporto pubblico locale sono da tempo una spina nel fianco dell’economia nazionale.

L’Ufficio studi della CGIA ha provato a stimare i costi di sprechi e malaburocrazia, arrivando alla conclusione che dovrebbero cubare oltre 11 punti di Pil all’anno, ovvero attorno ai 225 miliardi di euro.

Anche se nella pubblica amministrazione esistono punte di eccellenza centrali e locali invidiate in molti paesi europei, gli sprechi, gli sperperi e le inefficienze presenti nella burocrazia pubblica sono una amara realtà che, purtroppo, hanno e continuano a ostacolare la modernizzazione del Paese.

Sprechi a confronto con evasione, spesa sanitaria, Pil a Nordest e PNRR

Mettendo in fila i risultati di alcune analisi condotte da una mezza dozzina di istituzioni autorevoli, il danno economico per famiglie e imprese sarebbe di almeno 225 miliardi di euro all’anno. A titolo di esempio, quest’ultima è una cifra che ha una dimensione:

più che doppia dell’evasione tributaria e contributiva presente in Italia che è stimata attorno ai 100 miliardi di euro l’anno;

quasi doppia della spesa sanitaria italiana (131,7 miliardi per il 2023);

pari al valore aggiunto (Pil) prodotto nel 2021 da tre regioni del NordEst (Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia);

di poco inferiore alle risorse che l’Italia dovrà spendere entro il 2026 con il PNRR (235 miliardi).

L’Italia è tra gli ultimi in UE per qualità dei servizi pubblici 

Senza scomodare Cavour, che se ne occupò addirittura nel 1852 durante il Regno di Sardegna, in tempi più recenti l’allora premier, Alcide De Gasperi, cosciente che c’era la necessità di rendere più efficace il lavoro della pubblica amministrazione, istituì nel 1950 il primo ministero per la riforma burocratica (ministro Raffaele Pio Petrilli). Nonostante il problema fosse avvertito sin dagli inizi della Repubblica moderna, a distanza di quasi 75 anni la lotta a sprechi e malaburocrazia non ha portato grandissimi risultati.

Sebbene l’Italia abbia recuperato qualche posizione rispetto al 2019, nell’ultima indagine campionaria realizzata a inizio di quest’anno, l’Italia si colloca solo al XXIII posto a livello europeo per la qualità offerta dai servizi pubblici. Tra i 27 paesi UE messi a confronto, solo Romania, Portogallo, Bulgaria e Grecia presentano un risultato peggiore di quello italiano.

Male soprattutto in Basilicata, Campania e Calabria 

Anche dal confronto tra tutte le regioni dei paesi UE emerge che anche a livello territoriale il Paese non brillaper qualità ed efficienza. Su 208 regioni europee monitorate nel 2021 dall’Università di Göteborg, la prima realtà italiana è al 100° posto ed è il Trentino. Seguono al 104° le strutture pubbliche presenti nel Friuli Venezia Giulia, al 109° quelle ubicate in Veneto e al 117° quelle insediate in Alto Adige. Sconsolante è la situazione che emerge dalla lettura dei dai riferiti alle regioni del Sud. Delle ultime 20 posizioni di questa graduatoria europeaben 5 sono occupate dalle regioni del Mezzogiorno: la Puglia è al 190° posto, la Sicilia al 191°, la Basilicata al 196°, la Campania al 206° e la Calabria, penultima a livello europeo, al 207° posto.

Oltre al PNRR, l’Italia rischia di perdere anche i fondi ordinari UE

Come è emerso in queste ultime settimane, l’Italia è in ritardo non solo nella messa a terra del PNRR, ma anche nella spesa dei fondi ordinari UE. Entro il 31 dicembre 2023, data di scadenza di attuazione del settennato2014-2020, il paese – soprattutto le regioni del Mezzogiorno – dovrebbe spendere i restanti 29,8 miliardi (pari al 46% della quota totale) di soldi che sono stati erogati da Bruxelles, di cui 10 sono di cofinanziamento nazionale.

Se non si riuscirà a centrare questo obiettivo, la quota di fondi UE non utilizzatati andrà persa e verrà ridistribuita tra altri paesi Ue più virtuosi. A rischio una buona parte dei 19,8 miliardi che l’Europa ci ha messo a disposizione da almeno nove anni.

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