Contrordine compagni europei: la zootecnia non inquina, come erroneamente fin qui detto, ritenendola una dei protagonisti delle emissioni climalteranti su cui l’attuale maggioranza dell’Europarlamento unitamente alla Commissione ha imbracciato una campagna ideologica di stampo talebano.
L’allevamento zootecnico non intensivo come quello praticato in Italia contribuisce a combattere il riscaldamento globale e a mitigare il cambiamento climatico: questo, in sintesi, l’esito del lavoro di un gruppo di ricercatori italiani che hanno ricalcolato le emissioni del settore zootecnico italiano usando una nuova metrica proposta da un gruppo di fisici dell’atmosfera di Oxford e pubblicata su “Nature”.
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«L’introduzione di queste nuove metriche dovuta al lavoro del pool dei fisici inglesi è destinata a cambiare la cornice del dibattito sulla sostenibilità del sistema zootecnico» commenta Giuseppe Pulina, presidente di CarniSostenibili, la no profit per il consumo consapevole e la produzione sostenibile di carni e salumi.
Lo studio dei ricercatori di Oxford ha preso in considerazione per la prima volta la differenza in termini di azione sul riscaldamento globale tra gli inquinanti climatici a vita breve, come il metano, e gli inquinanticlimatici a vita lunga, come l’anidride carbonica. Le nuove metriche tengono conto della permanenza dei gas in atmosfera.
Il gruppo di ricercatori italiani sulla base dei dati ufficiali pubblicati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) dal 1990 al 2020, ha applicato queste nuove metriche alle emissioni di metano di tutte le filiere zootecniche italiane e hanno successivamente confrontato i risultati con quelli che si erano ottenuti usando le vecchie metriche facendo emergere non solo una significativa riduzione delle emissioni, ma addirittura la negativizzazione dell’impronta ambientale.
Se si guarda il contributo cumulativo totale della produzione zootecnica italiana al riscaldamento globale negli ultimi 10 anni – emissioni di metano e protossido di azoto – con l’applicazione delle nuove metriche, questo diminuisce fino a negativizzarsi: da +206 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti calcolate con il vecchio metodo (Gwp) a -49 milioni di tonnellate stimate con le nuove metriche (Gwp).
Stante questi risultati, è indispensabile che l’Europarlamento e la stessa Commissione faccia atto di contrizione, ammettendo lo sbaglio, provvedendo alla profonda revisione del piano “Farm to Fork” che, sull’altare della riduzione delle emissioni climalteranti, ha deciso di depotenziare fortemente la produzione primaria in Europa, aprendo alle importazioni da produttori extraeuropei per assicurare la soddisfazione del fabbisogno alimentare europeo e alla produzione di alimenti artificiali, a partire dal latte-non-latte e dalla carne-non-carne. Facendo così un duplice errore aggravato: non solo non abbatte l’inquinamento e le emissioni climalteranti aumentando i trasporti via mare delle derrate alimentari, ma finisce con l’immettere sul mercato europeo prodotti che sono stati realizzati con criteri di salubrità, sicurezza alimentare e sostenibilità ambientale agli antipodi di quelli europei, penalizzando oltretutto i produttori di qualità europei – a partire da quelli italiani, leader di settore – e finendo con l’aggravare il deficit alimentare continentale.
Davvero brava la compagnia europea di centro sinistra capeggiata da Ursula von der Leyen e compagnucci vari.
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