A scuola fino a 18 anni: il mondo del fare scettico sulla proposta di Calenda

La proposta punta a portare i giovani sulle scuole intellettuali, a scapito di quelle tecniche e professionali. 

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scuola fino a 18 anni

Il capoclasse d’Italia, quel Carlo Calenda leader di Azione, vorrebbe mandare a scuola fino a 18 anni tutti i ragazzi, fino alla maggiore età, estendendo l’attuale obbligo del biennio fino a due anni del triennio. Una proposta che, se approvata, potrebbe portare più danni che benefici, visto che l’obbligo verrebbe meno ad un anno dal termine del ciclo di studi superiori, sempre che la riforma non s’accompagni alla ridefinizione del ciclo degli studi, compresso da 5 a 4 anni, come già alcuni corsi stanno sperimentando.

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Ma il problema di fondo è che il capoclasse Carletto ha una netta predilezione per i percorsi di formazione umanistici tipici dei licei, perché secondo lui «è lì che si formano le competenze dei futuri adulti», con ciò facendo emergere quella tendenza un po’ spocchiosa tipica dei pariolinifigli di”. E Calenda è “figlio digiù giù fino ai nonni paterni e materni.

La proposta di Calenda di mandare a scuola fino a 18 anni fa emergere una sorta di idiosincrasia verso il lavoro tecnico e, soprattutto, manuale, quasi una società non avesse bisogno anche delle professioni manuali tipiche dell’artigianato, dell’industria e anche del commercio. Forse nella sua visione della futura società italiana, il capoclasse azionista vede un mondo fatto solo di “dott.”, “ing.”, “avv.” e anche “prof.”: peccato.

Un peccato rimarcato anche dagli esponenti del mondo manifatturiero, che hanno ricordato al capoclasse Carletto come nel comparto del fare ci siano tanti giovani professionalizzati, con adeguato bagaglio culturale e tecnico che non hanno nulla da invidiare a quelli sfornati dai licei, con una marcia in più anche alla voce guadagni, visto che un giovane tecnico può guadagnare al primo impiego 1.500 euro, con rapida crescita fino a 1.800 euro al mese netti in busta paga, ben di più di quelli percepiti da un burocrate laureato imboscato nella pubblica amministrazione o di qualche laureato in uno di quei corsi che oggi assicurano uno stipendio solo a chi vi insegna.

Forse in Italia le famiglie dovrebbero recuperare il gusto e l’orgoglio del fare, perché oggi il lavoro manuale non è affatto un minus, ma anche un plus, anche in comparti ad alto valore aggiunto come quelli creativi.

Intanto, in attesa del giudizio sovrano degli italiani sul capoclasse Carletto, meglio farebbe a rilanciare un rapporto più stretto tra il mondo della scuola e del lavoro in tutti gli indirizzi di studio e fare entrare il mondo del fare in tutte le sue declinazioni in quello della scuola per preparare meglio i giovani al loro futuro, oltre che per indirizzarli al meglio per assecondare le loro capacità ed inclinazioni nel mondo del lavoro. Senza trascurare il fatto che sarebbe necessario dare un’occhiata attenta anche all’attuale corpo docente, non sempre adeguato alle necessità di una scuola moderna.

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