Il “Rinaldo” di Haendel in scena al Gran Teatro La Fenice

Solamente tre rappresentazioni di un’opera barocca che merita maggiori ascolti.  Di Giovanni Greto 

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Dopo 32 anni di assenza, il Teatro La Fenice di Venezia ha proposto lo storico allestimento di “Rinaldo” di Georg Friedrich Haendel, ideato dal regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pizzi, con voci famose quali quelle di Marilyn Horne nel ruolo di Rinaldo, di Cecilia Gasdia, alias Almirena e della singolare, aspra di Christine Weininger, nei panni di Armida. L’opera avrebbe dovuto festeggiare i 90 anni di Pizzi nel 2020 ma, causa pandemia da Covid-19, le rappresentazioni vennero sospese.

Lo spettacolo, rivisto nelle luci e nei costumi, è quello originale, nato 36 anni orsono, del Teatro Municipale di Reggio Emilia, ricostruito da Fondazione Teatro La Fenice e Teatro dell’Opera di Firenze: un’operazione elaborata partendo dalle due diverse edizioni del musicista sassone, del 1711 e del 1730. In scena si è seguita prevalentemente la prima versione londinese, con tagli che hanno ridotto i tre atti dell’originale a due parti, e si è adottata una scelta compiuta dopo il 1711 dallo stesso Haendel: il personaggio di Eustazio, fratello di Goffredo di Buglione, è eliminato e ciò che della sua parte non viene tagliato passa a Goffredo.

Aaron Hill, direttore del Queen’s Theatre di Haymarket, propose al venticinquenne compositore di mettere in musica un dramma ricavato da un episodio della Gerusalemme liberata, interamente compiuta nel 1575 da Torquato Tasso (1544 – 1595). Ricevuta da Haendel una risposta affermativa, Hill incaricò il poeta italiano Giacomo Rossi di realizzare un libretto d’opera, mettendo in versi un canovaccio da lui stesso preparato, concedendosi alcune licenze invalse da tempo nei rapporti fra teatro in musica e fonti letterarie.

Se l’azione inizia dall’assedio di Gerusalemme, al tempo della Prima Crociata, da parte degli eserciti cristiani, capitanati da Goffredo di Buglione e dalla richiesta di tregua di Argante, il re saraceno, il valore di Rinaldo, il più illustre fra i cavalieri cristiani, si infiamma per la promessa di nozze con Almirena, la figlia di Goffredo, che non compare tra le eroine del Tasso. Di qui le altre libertà.

La maga Armida, regina di Damasco, alleata e amante di Argante, il giovane, convincente basso Tommaso Barea, rapisce con un prodigio Almirena onde distrarre Rinaldo dalla guerra. E così accade. Trasportato anche lui per magia nel castello incantato di Armida, non cede alle sue seduzioni, nemmeno quando, presa da violenta passione, ella assume le sembianze della donna amata. A riunire i due innamorati riuscirà Goffredo con l’aiuto di un mago cristiano, che ha ancora la voce di Tommaso Barea, capace di interpretare senza intoppi un doppio ruolo. Una volta libero, Rinaldo sgomina i nemici e Gerusalemme cade. Armida, cui presta una voce soprano acutissima, un’irrequieta ma poco convincente Maria Laura Iacobellis, rinuncia ai poteri diabolici e assieme ad Argante si converte rapidamente al cristianesimo, per completare il trionfo finale della virtù.

Scenograficamente, Pizzi ha deciso di «proporre un teatro figurativo, strettamente legato alla musica, un teatro delle meraviglie, da sempre mirato a suscitare stupore. Ho affidato a servi di scena (22 mimi), come nel teatro elisabettiano o nel Kabuki, il compito delicato di provvedere agli spostamenti dellle macchine – nel caso specifico si tratta di carri – rendendo variabile ogni movimento. Il trucco è svelato ed è parte integrante del gioco scenico. Questa la chiave di lettura: i personaggi vengono portati dentro la vicenda dai carri e accompagnati durante tutto il percorso narrativo. Vestono ampi mantelli di velo, che agitati dagli uomini-macchina, ispirati dalla musica, entrano come creature irreali nel vortice magico. Questa è stata l’idea che ha caratterizzato lo spettacolo e ne ha determinato la fortuna».

Professionale, tecnicamente inappuntabile, tuttavia poco affascinante quanto a calore interpretativo, Teresa Iervolino si è calata nei panni di Rinaldo, in origine affidato alle voci dei castrati.

Merita l’applauso l’orchestra, di medie dimensioni, composta da due flauti dolci e un piccolo flautino, due oboi, due fagotti, quattro trombe naturali, un paio di timpani barocchi ed un tamburo rullante, tre violini, una viola, un contrabbasso ed il basso continuo, svolto da tiorba, violoncello e clavicembalo, direttacon intensità, snellezza e precisione da Federico Maria Sardelli, ormai imprescindibile nel repertorio antico feniceo, il quale ha definito l’opera «una festa di colori strumentali» e , aggiungo, con parecchi momenti esclusivamente affidati agli strumenti, tutti singolarmente nitidamente udibili, pur intersecandosi spesso, senza che nessuno ambisca a primeggiare, col risultato di privilegiare piuttosto l’ascolto reciproco, e di ottenere una sonorità fresca, importantissima quando è il momento di interagire con le diverse vocalità.

E’ un’opera spettacolare, che in nemmeno due ore, oltre a un breve intervallo, abbraccia il pubblico grazie ad una musica bella, che non ci si stancherebbe mai di ascoltare. Tra le arie più conosciute, ne cito almeno due, entrambe interpretate da Almirena, la soprano Francesca Aspromonte, con grazia e passionalità: “Augelletti, che cantate”, introdotta da un solo di flautino ad opera dello stesso Sardelli e la struggente “Lascia ch’io pianga”.

Nutriti applausi e passerella collettiva dei cantanti assieme al direttore d’orchestra e ad un felice e in gran forma Pizzi, sorridente e visibilmente soddisfatto dalle sensazioni comunicate al pubblico in sala.

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