Unimpresa, allarme laboratori cinesi clandestini: è concorrenza sleale

Ecco le sei “bombe” che minacciano il tessuto produttivo del Paese, specie nel comparto moda. Lauro: «occorre un provvedimento urgente, prima che sia troppo tardi».

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I laboratori cinesi clandestini fanno concorrenza sleale, con la guerra dei costi, e costituiscono la più pericolosabomba” per il futuro dei distretti industriali e delle piccole, medie imprese italiane. È l’allarme lanciato da Unimpresa nel documento “La crisi dei distretti industriali e delle Pmi” che mette in fila le sei “bombe” esplose, nel corso del 2020, sull’economia del distretto, specie quello della moda, «in una devastante successione, come negli attentati terroristici, che eliminano oltre alle prime vittime, anche i soccorritori e, infine, gli stessi investigatori». 

Oltre alla concorrenza sleale dei laboratori cinesi clandestini, le altre cinque minacce per il tessuto produttivo del Paese, evidenziate da Unimpresa, sono: la cassa integrazione che non arriva ai lavoratori con gli imprenditori costretti ad anticiparla ai loro dipendenti; la fuga delle migliori risorse umane, che, se scarsamente occupate, trovano impieghi migliori, privando le Pmi di manodopera pregevole; l’ansia e il timore per il futuro create dal Covid-19, specie se colpisce le aziende con 4-5 dipendenti; l’arretratezza digitale, soprattutto delle microimprese, dove addirittura si fatica a utilizzare la semplice posta elettronica; i comportamenti degli acquirenti e delle grandi firme che schiacciano i terzisti mettendo in atto uno spregevole taglieggiamento, alla faccia dei codici etici europei e il piccolo imprenditore, con l’acqua alla gola, è costretto a subire.

«Questa è la radiografia drammatica della crisi che ha investito i nostri distretti industriali e le Pmi. Il prossimo governo ne avrà la consapevolezza e riuscirà a varare misure per salvare e rilanciare questo modello italiano, un gioiello di organizzazione produttiva, di creatività e di efficienza? Occorre ormai un provvedimento di legge ad hoc, lanciare un SOS per salvare i distretti e le Pmi, prima che sia troppo tardi» spiega il segretario generale di Unimpresa, Raffaele Lauro.

«La crisi pandemica si è abbattuta come un tornado devastante sui nostri distretti industriali, una vera tempesta perfetta, nell’indifferenza assoluta del governo BisConteprosegue Lauro -. Auspichiamo che il prossimo esecutivo possa finalmente porre riparo nella progettualità della ripresa, ancorata alle risorse del “New Generation Ue”. Se scompaiono i distretti, muore la piccola e media impresa del “Made in Italy”, tracolla il sistema economico produttivo nazionale».

Ecco, nel dettaglio, le sei “bombe” che minacciano il tessuto produttivo del Paese.

La cassa integrazione non arriva e gli imprenditori devono anticiparla ai dipendenti, per affetto verso di loro e per interesse, prosciugando così la già scarsa liquidità. Quella liquidità che serviva per comprare tessuti, accessori e materiali nuovi da sperimentare, nonché a pagare i disegnatori e i modellisti. Così l’ingranaggio subisce un primo inceppamento.

Le migliori risorse umane, chiamate a lavorare solo qualche giornata, se trovano un’occupazione migliore, un’alternativa, che garantisca la mensilità, se ne vanno, privando la Pmi di mani pregevoli, di quell’esperienza pluriennale, impossibile da rimpiazzare, anche nell’eventuale ripresa futura. In tal modo, l’azienda s’impoverisce ulteriormente, nel fattore umano e nelle disponibilità finanziarie, dovendo far fronte anche ai costi necessari alla conclusione dei rapporti di lavoro.

Con il Covid-19, la malattia arriva e colpisce al cuore il fattore umano dell’azienda, creando ansia e timore nel futuro. Quando questo avviene, in aziende con 4-5 dipendenti, provoca un altro choc, un altro arresto all’ingranaggio. Per cui anche i progetti innovativi nel mondo della moda, subiscono un’alterazione nei ritmi di produzione: il laboratorio A lavora il lunedì, il B soltanto il giovedì e C solo il venerdì pomeriggio. In tal modo i tempi, che erano di tre settimane per produrre un capo finito, diventano cinque, sei o sette, con problemi di controllo della qualità e di costi maggiorati, perché non si riesce più ad efficientare la logistica, i volumi e gli spostamenti.

Permane l’arretratezza digitale dei fondatori di queste microimprese, alcuni addirittura faticano anche ad aprire una mail. Ci sono situazioni in cui, nel migliore dei casi, passa la nipote del titolare, un giorno sì e uno no, per leggere la posta elettronica. Ma se si ammala o deve stare a casa a guardare i bambini, che non possono andare a scuola, la mail rimane lì, inutilizzata, magari con un messaggio importante, magari per una modifica ad un progetto, magari per un ordine, magari per un’informazione utile.

Gli acquirenti se ne approfittano. Le grandi firme schiacciano i terzisti: quel pantalone che sanno di dover pagare a 30 euro, lo chiedono per 25, perché nella casa madre qualcuno ha scritto questa previsione nel business plan. Di conseguenza, i rappresentanti sul territorio spingono per chiudere a 23, per far una bella figura con l’azienda. Il piccolo imprenditore, con l’acqua alla gola, è costretto a subire. Uno spregevole taglieggiamento, alla faccia dei codici etici europei.

Infine, i laboratori dei cinesi, anche clandestini, costituiscono la più pericolosa bomba per il futuro dei distretti: realtà che fanno concorrenza sleale, con la guerra dei costi, finché non dovranno anche loro fare il DURC. Ma quando?

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