AnD NoW!, titolo scelto per questa edizione di Biennale Danza 2020, ha presentato, nell’arco di 13 giornate, diversi spettacoli interessanti, a partire da quello di La Ribot (Madrid, 1962), che si è aggiudicata il Leone d’oro alla carriera per la Danza. “Il suo lavoro resiste a qualsiasi classificazione: performance, installazione live, danza, arte visiva. Ci fa amare la libertà e i suoi limiti vibranti: Si diverte. Ci rallegra”, come si legge nella motivazione, scritta da Marie Chouinard, direttrice del settore Danza.
Ed è proprio così. Nell’arco di un’ora, la coreografa ha proposto, per lo spettacolo Mas Distinguidas (1997), 13 pezzi solistici, dal n.14 al n.26, eseguiti non rispettando l’ordine numerico, nei quali si esibisce spesso nuda, esponendo il proprio corpo nella sua unicità come opera concettuale in movimento, senza destare sensazioni pruriginose, spesso ironica, se non dissacratoria.
Nel primo pezzo, “Sin titulo IV”, il buio che precede l’inizio improvvisamente si fa luce: la Ribot è sdraiata, spalle alla platea, mostrando la parte posteriore del suo corpo, mentre si guarda silenziosa ad uno specchio rotondo. Lo fa rotolare, si alza e si fotografa con una macchina Polaroid. Estrae le foto e se le incolla ai seni, al basso ventre (un triangolino colorato rosso-rosa); poi avanza verso il pubblico a braccia alzate, si inchina lentamente e getta a terra il materiale fotografico prodotto.
C’è la vendita di sé al miglior offerente, quando in un pezzo si appende al collo il cartello “Se vende”.
Nella realtà, i pezzi dall’1 al 34 (“Distinguished pieces”) sono stati venduti a proprietari distinti, «disposti ad acquistare – come spiega Elisa Guzzo Vaccarino nel programma di sala – i suoi brevi poemi scultorei viventi, come opere, atti coreografici immaginari, azioni performative lampo, momenti di corporeità condensata in un habitat di materiali eterogenei».
Divertente “Manual de Uso”, il pezzo n.20, in cui legge in italiano un manuale di istruzione relativo all’acquisto di un oggetto non specificato, ubbidendo con movimenti del corpo, alle spiegazioni scritte nel testo.
Il momento della danza arriva con “Misunderstanding” (n.24). Interpreta Tumbao, un guaguancò melodico a tempo medio-lento del pianista cubano Rubén Gonzalez, passato a miglior vita dopo il successo inaspettato, arrivato in tarda età, della pellicola “Buena vista social club”. Emerge la sonorità calda, grave ed acuta, delle congas e dei timbales, che sostengono, assieme al contrabbasso, l’improvvisazione del pianoforte.
Accompagnata da una musica spagnoleggiante nell’ultimo pezzo, “No.26”, ballando, la Ribot disegna sul suo corpo una serie di caratteri che potrebbero rimandare alla scrittura cinese o giapponese.
Applausi prolungati e convinti abbracciano un’artista, il cui corpo non dimostra l’età anagrafica, merito probabilmente di una cura e di un allenamento che lo mantengono sempre giovane.
Questa edizione della Biennale Danza è stata contrassegnata da parecchi spettacoli con musica dal vivo. Time Takes the Time Time Takes, al teatro alle Tese, vede sulla scena 5 danzatori: Guy Nader (Beirut, 1980) e Maria Campos (Barcellona, 1980), coppia artistica che dal 2006 ha formato la compagnia indipendente GNIMC, con sede a Barcellona. Insieme ad altri tre e al percussionista Miguel Marin, hanno dato vita ad uno spettacolo che esplora e rende omaggio alla dimensione del tempo, attraverso la ripetizione e l’accumulo del movimento.
Il quintetto indossa un abbigliamento comodo di colore grigio e bianco, ideale per compiere gesti armoniosi, spesso ripetitivi, in una sequenza di movimenti oscillatori, che creano complessi meccanismi in sincronia con il pulsare della musica dal vivo, un’ipnotica rappresentazione del moto perpetuo. Momenti silenziosi si alternano ad un Ambient ritmico assai raffinato, ideato da Marin. Egli padroneggia uno scarno drum set – due timpani e due piatti sospesi – percuotendolo con spazzole o bacchette o mazzuoli feltrati all’estremità, ed interagisce alla perfezione con chi danza, quasi stimolando ogni solista a dare il meglio di sé, nella costruzione di una coreografia che ben si relaziona con la sonorità delle percussioni. Dinamico, Marin inserisce anche momenti ad alto volume, come quando esegue rullate via via più veloci, fino ad interrompersi con un puntuale stop, abbinato al buio improvviso in sala.
Nel presentare lo spettacolo – 55 minuti che scorrono via in scioltezza, con momenti di trance positiva – Nader e Campos sottolineano come “la nozione di tempo e il piacere della ripetizione rivelano un eterno presente che evidenzia il qui e ora come stato di contemplazione, una realtà fugace ed effimera come la danza stessa.
Drammaturga, coreografa e didatta, Claudia Castellucci (Cesena, 1958) è stata premiata con il Leone d’argento per la Danza. Nello stilare la motivazione, Marie Chouinard ha sottolineato la sua figura di “coreografa sobria, seria, minimalista ed esigente, che lavora con la sacralità alla sua arte”. Il suo lavoro, in prima mondiale al teatro Piccolo Arsenale, ha favorevolmente stupito la coreografa canadese. “Fisica dell’aspra comunione. Ballo della compagnia Mòra”(2020) è un ballo che percorre uno schema di movimenti, dedotti dal Catalogue d’oiseaux, composto per pianoforte da Olivier Messiaen (Avignone, 1908 – Clichy, 1992) tra il 1956 e il 1958. Si tratta di 77 canti di uccello, colti dal compositore nella campagna francese e annotati sul pentagramma dopo una prolungata osservazione. La Castellucci da anni si dedica allo studio della danza sotto il profilo essenzialmente ritmico, sviluppando una propria filosofia e insieme una pratica sul concetto di tempo musicale che ha trovato in Messiaen. “La libertà del canto degli uccelli può esser presa a modello e imparata, a patto che si viva la danza con un senso di permanenza nell’ora, indifferente alla misura e attento al ritmo soltanto”.
Cinque giovani danzatori hanno dato vita a movimenti lenti e geometrici, in rapporto alla musica dal vivo (una decina di brevi pezzi per un tempo totale di nemmeno 40 minuti), eseguita dal pianista Matteo Ramon Arevalos. Una sensazione di oscurità, mista a sgomento, si impadronisce dell’animo di chi assiste, favorita forse anche dall’abbigliamento nero, con eleganti gonne pantalone, ugualmente indossato da ogni componente del quintetto.
Due sono stati i momenti dal vivo della coreografa belga Lisbeth Gruwez (Courtraie, 1977). In “Piano works Debussy (2020) per la prima volta si misura con la musica classica attraverso un duetto/dialogo con la pianista francese Claire Chevalier (Lione, 1969). In circa 50 minuti, si ammirano movimenti che alludono, più che esprimere, in linea con la ricerca di Claude Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 1862 – Parigi, 1918) verso una musica immateriale. Il fascino e l’eleganza nei movimenti della coreografa sono sottolineati da una musica ancora fresca, attuale, bene eseguita dalla Chevalier. Secondo l’autrice “Piano works Debussy” è un acquerello. “Penso all’ariosità dei colori che scorrono l’uno nell’altro, si asciugano per un po’ e si inumidiscono di nuovo per stabilire nuove connessioni”.
“Lisbeth Gruwez dances Bob Dylan” (2015) nasce da un’idea della coreografa e del musicista e compositore belga Maarten Van Cauvenberghe (Beveren, 1976), i quali nel 2007 fondarono Voetvolk (“fanteria”), una compagnia belga di danza e performance contemporanea, produttrice dello spettacolo. I due artisti hanno voluto ricreare l’atmosfera di un locale notturno dove si fuma e si beve birra: Maarten ha infatti fumato, solamente all’inizio, per fortuna, una sigaretta, nell’atto di svolgere il suo lavoro di Dee – jay, mentre entrambi, brindando sorridenti, hanno bevuto qualche sorso della bevanda bionda. In 45 minuti Maarten ha suonato dal vivo 8 canzoni degli anni ‘60 e 70 del premio Nobel 2016 per la letteratura, mentre Lisbeth le intepretava intimamente cercando di far emergere la loro poesia, quasi alla scoperta di significati ‘altri’, oltre a quelli musicali e testuali, delle ballate del cantautore americano.
Di Noè Soulier (Parigi, 1987), definito artista-pensatore (è laureato in filosofia) ho visto, in prima italiana, Les Vagues (2018), per sei ballerini e due percussionisti [Tom De Cock (1982) e Gerrit Nulens (1972)], che fanno parte dell’ensemble belga ICTUS, fra i migliori interpreti di musica contemporanea, da tempo attivo anche con importanti coreografi. Sul loro fraseggio musicale, pieno di colori, grazie ad un vasto set percussivo, ricco di sonorità calde (dei legni) e sferzanti (dei metalli), i ballerini – Stephanie Amurao, Lucas Bassereau, Meleat Fredriksson, Yumiko Funaya, Nans Pierson, Nangaline Gomis – hanno suggerito la frammentaria esperienza delle nostre azioni corporee, che si propongono nei loro movimenti. E’ una pièce faticosa, con movimenti delicati e potenti, assecondati da un volume sonoro ora alto, ora basso, accenni a ritmiche sudamericane dell’area afrocubana, caraibica, brasiliana (con esempi che riconducono alle batucada de samba). Si vuole coinvolgere il pubblico, allo scopo di “attivare la sua memoria corporea in tutte le diverse implicazioni sia fisiche, che psicologiche”, secondo quanto afferma l’autore.
Due danzatrici sono le protagoniste di “Posare il tempo”, della coreografa Claudia Catarzi (Prato, 1983), uno studio sul movimento in rapporto alle direzioni essenziali di spazio-tempo. La sua è un’idea dell’arte del corpo raffinata, controllata, ampliata nei dettagli di una partitura dinamica esatta, che elabora segni poetici in un montaggio accuratissimo. Molto brave e concentratissime le due interpreti, la stessa Catarzi e la giovane Claudia Calderano. Accanto a loro, l’ottimo percussionista Gianni Maestrucci, il quale ha utilizzato strumenti a membrana e metallofoni dal suono cristallino, attento a fermarsi nello stesso istante in cui le danzatrici terminavano ogni loro esercizio.
Si è concluso così il quadrienno alla direzione del Settore Danza di Marie Chouinard, alla quale succederà Wayne McGregor, coreografo e regista britannico.
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