La multinazionale di Bergamo è stufa del continuo boicottaggio delle frange ambientaliste. Pavin: “una pericolosa china antindustriale”
Un fulmine a ciel sereno quando i più attendevano ancora il pronunciamento del Consiglio di Stato verso l’ennesimo ricorso portato contro il progetto di potenziamento dell’impianto di produzione di cemento dell’area Berica: con un semplice comunicato è stato annunciato che l’impianto Italcementi di Monselice è destinato a un drastico ridimensionamento. Il futuro dell’impianto padovano che è a Monselice dal 1956 quando fu posta la prima pietra dello stabilimento (la produzione iniziò due anni dopo) è decisamente fosca: all’inizio del 2013 la produzione del cemento a Monselice verrà bloccata. La cementeria sarà sostituita da un centro di macinazione e spedizione. E per i lavoratori attualmente impiegati si prospetta la certezza della disoccupazione, visto che nei piani della proprietà la nuova destinazione dell’impianto assorbirà solo una quarantina circa degli attuali 250 dipendenti.
I sindacati e le rsu aziendali hanno già fissato incontri con la proprietà per la prossima settimana per sondare le reali intenzioni di Italcementi. Oltre ai licenziamenti diretti, danni si ripercuoteranno anche sull’indotto. Il previsto investimento di 150 milioni di euro per migliorare l’impatto ambientale e potenziare la produzione a Monselice sarà spostato nell’impianto di Rezzato in provincia di Brescia.
In una nota diffusa da Italcementi, l’azienda afferma che “tutte le considerazioni sul futuro dell’impianto di Monselice sono subordinate, oltre che all’attuale congiuntura di mercato, anche allo scenario che si verrà a creare con la decisione ancora pendente presso il Consiglio di Stato. Se la sentenza sarà positiva, l’azienda potrà trarre le sue valutazioni basandosi su tre aspetti: l’andamento del mercato dei materiali per le costruzioni; l’opportunità di finanziare in modo sostenibile l’intervento; la possibilità di un dialogo costruttivo tra il territorio e l’impianto”.
A livello nazionale, Italcementi prevede il ricorso alla cassa integrazione straordinaria per 665 dipendenti su un totale di 2.500.
Stupito della decisione il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi: “mi auguravo che ci fosse ancora uno spazio di manovra. Evidentemente la corda troppo tesa si è spezzata. Quello che ci rammarica è che Monselice è stata inserita nell’elenco degli stabilimenti da dismettere per un solo motivo: perché il progetto del revamping, su cui Italcementi era pronta ad investire 160 milioni di euro, nella nostra città è stato ostacolato fino allo stop. La frangia estremista degli ambientalisti – dice Longhi – ha infatti avviato una vasta campagna contro questo intervento. Non contenta, una volta preso atto di non essere riuscita a costruire consenso attorno alla sua posizione, ha presentato numerosi ricorsi di carattere amministrativo che hanno rallentato l’inizio dei lavori fino a farlo annullare del tutto”. Secondo il sindaco di Monselice “ se Italcementi avesse potuto proseguire con i suoi piani avrebbe comportato il mantenimento e lo sviluppo dei posti di lavoro unito a un considerevole abbattimento delle emissioni; invece, ora la città dovrà gestire un’emergenza occupazionale le cui conseguenze sono difficili adesso da immaginare. Se non ci fossero stati questi ricorsi e i tempi infiniti per avere delle risposte, probabilmente Monselice ora sarebbe nella fascia di eccellenza”.
Chi canta vittoria è il fronte dei contrari guidato da Francesco Miazzi, che ritiene che il vero obiettivo del potenziamento fosse non tanto la produzione di maggiori quantitativi di cemento, ma l’entrata nel settore dello smaltimento dei rifiuti, speciali e non.
Sul caso Italcementi di Monselice arriva la dichiarazione preoccupata del presidente di Confindustria Padova Massimo Pavin, secondo il quale “il caso Italcementi è la fotografia della realtà che ci circonda, l’evidente e irreversibile china che sta prendendo il fare industria in Italia. Di fronte alla volontà ostinata di molti imprenditori di resistere, nonostante l’emergenza dell’economia italiana, ideando, innovando e producendo in modo sostenibile qui, si preferisce dire tanti no. Come Italcementi, ci sono altre decine, centinaia di piccole e medie imprese nella nostra provincia bloccate nei loro piani di sviluppo, ampliamento e nuova occupazione dalla norma urbanistica, dal cavillo burocratico, dal comitato, dal Tar. Sono guardate con sospetto, anziché con rispetto. Sospetto che si è tradotto via via in una cultura e in una pratica giuridica e amministrativa ostili al fare impresa”. Per Pavin “senza industria, però, non c’è lavoro, non c’è benessere e la coesione sociale viene messa a dura prova. Questo va detto con chiarezza e senza tanti giri di parole, soprattutto a chi non vede, o finge di non vedere cosa c’è in fondo a quella china: la perdita di pezzi importanti della nostra economia, la desertificazione della manifattura. L’impoverimento che ne conseguirebbe, ogni persona responsabile può misurarlo”.