Paolo Rossi porta “Pane o libertà. Su la testa” al Teatro Goldoni di Venezia

100 minuti in compagnia dell’applaudito affabulatore. Di Giovanni Greto

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paolo rossi

Il titolo dello spettacolo di Paolo Rossi, “Pane o libertà”, lo ha spiegato l’autore/attore: «l’ho ripreso da un libro, ma non vi dico quale. Lo trovo molto emblematico; si impone la scelta fra mangiare, vivere o avere la libertà». Il sottotitolo “Su la testa” è stato coniato dall’attore per la trasmissione televisiva omonima del 1992.

Due dei tre musicisti che interagiscono con il comico prendono posto sul palcoscenico. Arriva Paolo Rossi e, per ultimo, dalla platea, il terzo musicista. Rossi lo rimprovera per il ritardo. L’altro adduce come scusa l’insolito orario di inizio. È lo spunto per una prima improvvisazione che coinvolge il pubblico. «Da quand’è che si comincia alle sette? È perché – in questo periodo di pandemia – hanno paura che vi muoviate la sera dopo le nove?» Inizia così la cosiddetta “Stand-up Comedy”, che vuole abbattere la quarta parete, in cui il comico si esibisce in piedi (l’inglese “Stand -up”) davanti al pubblico.

La lunga chiacchierata informale, si potrebbe dire tra amici – 80 minuti più un lungo bis finale, come rivela subito il protagonista, che dilaterà lo spettacolo a 100 minuti – prende il via, mescolando improvvisazione a ripescaggi di inserti tratti da lavori precedenti.

Si parte dai politici, una volta offesi, se il comico li prendeva in giro, mentre adesso sono loro che fanno i comici, senza avere però i giusti tempi tecnici.

Paolo Rossi scaglia poi una lunga invettiva contro i crudisti, lui che afferma di mangiare di tutto, che non raccolgono la frutta dagli alberi, fino al momento in cui cade a terra. Oppure non uccidono il maiale quando è bello grasso, ma ne attendono la morte naturale. E allora, incalza Rossi, la sua carne non è più così buona.

Ricorda le esibizioni alle Feste de l’Unità, quando il liscio, la musica da ballo, si inseriva nel bel mezzo del suo lavoro, «ma che goduria essere pagato in nero dai Rossi

Rivela che il suo metodo di lavoro è il “Furto d’autore”, secondo gli insegnamenti di Dario Fo che affermava: «rubare in teatro è da geni. Copiare è da coglioni». «Poi ho scoperto – continua Rossi -che questa frase Dario l’aveva “ciulata” da Picasso. Allora, ora che entrambi sono morti, la faccio mia».

Uno dei più grandi ladri, in questo senso, è stato Shakespeare. Paolo Rossi gli rende omaggio recitando una “Preghiera a William Shakespeare”, commentata da un sottofondo Jazz/Blues da parte della Ancien Prodiges Band, che prima si chiamava “I virtuosi del Carso”: Emanuele Dell’Aquila, chitarra elettrica e Bass Drum (la grancassa della batteria), Alex Orciari, contrabbasso e Hi-Hat (la coppia di piatti a pedale), Stefano Bembi, fisarmonica e Shaker, piccolo strumento a scuotimento, immancabile nella musica latino americana.

Rossi critica quel nuovo, apparentemente più rispettoso, linguaggio che sostituisce la parola negro con persona di colore. E racconta, come in altri suoi spettacoli, la storiella di Ray Charkes e Stevie Wonder che si incontrano e si abbracciano: «che vita triste, siamo ciechi», e l’altro: «pensa se eravamo negri!» Rossi osserva che la storiella non avrebbe sortito lo stesso effetto se si fosse usato il termine neutro.

Rievoca il fantasma di Maria Callas, ricordando una sua esibizione alla Scala di Milano, sul cui palcoscenico il direttore di scena gli aveva mostrato un segno, per indicare la posizione perfetta per farsi sentire da tutto il teatro.

È il momento della ginnastica. Rossi fa alzare in piedi il pubblico, totalmente obbediente. E lo fa divertire attraverso una lezione di ginnastica con movimenti a volte strampalati, che si velocizzano incalzati da una musica a ritmo sempre più rapido, che sembra citare le canzoni popolari russe, grazie alla fisarmonica di Stefano Bembi.

Un pensiero al Derby, il rimpianto tempio della comicità milanese, ristrutturato da un precedente edificio nel 1985 grazie al tenente Mainardi.

Un saluto a Gianmaria Testa, il cantautore piemontese, spentosi a 57 anni, con il quale Rossi aveva lavorato. Lo ricorda intonando una sua canzone, “La maschera di Arlecchino”.

Lo spettacolo si conclude con il “monologo di San Crispino (prima di una battaglia)”, tratto dall’Enrico IV di Shakespeare.

Si arriva così al lungo bis. Rossi ricorda il vuoto di memoria capitato a Felice Andreasi, proprio al Goldoni trent’anni fa, alla prima di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, messo in scena e recitato da Giorgio Gaber assieme ad Enzo Jannacci e agli altri due citati. Ad un certo punto, si attende la battuta di Andreasi, che però ammutolisce. Non sa più come continuare. Jannacci gli dice “Buttati giù” e lui declama “Buttati giù”, invece di gettarsi a terra.

C’è tempo per un inedito di Rino Gaetano, in cui si canta in coro che «Morire bisogna, ma se tieni duro, più tardi morirai».

Applausi da parte di una platea attenta e divertita, desiderosa di ridere a lungo. Complimenti ai musicisti. Ottime sonorità e capacità solistiche al servizio di un geniale, forse un po’ intristito, cantastorie, di una commedia dell’arte dei tempi moderni.

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