Non è stato facile, almeno per me, seguire la versione dell’Orestea di Eschilo, una trilogia (Agamennone, Schiavi, Conversio), messa in scena dal collettivo Anagoor, Leone d’Argento alla Biennale 2018, riproposta al teatro Goldoni.
3 ore e 40 minuti, con un intervallo, sono un tempo troppo lungo per riuscire a mantenere la necessaria concentrazione. E risulta difficile collocare al punto giusto tutta una serie di rimandi letterari all’interno dello spettacolo, a meno che non si sia dotati di un’eccellente cultura enciclopedica o ci si sia preparati per i quiz che imperversano nella TV italiana prima di cena. I numerosi attori sono comunque molto preparati e professionali.
La trama dell’Orestea inizia dal ritorno del re di Argo che torna vittorioso dalla guerra, ma carico di tristezza. La tragedia si apre con “Agamennone”, il re che per conseguire obiettivi di potere sacrifica i beni più preziosi, la felicità, gli affetti più cari. Ma le ricchezze ricavate dalla conquista si pagano con il sangue. Una lunga serie di violenze esplose in seno alla famiglia formano la trama dolorosa dell’Orestea. Un padre (Agamennone) uccide la figlia (Ifigenia); la sposa (Clitennestra) a sua volta lo uccide; un figlio (Oreste) uccide la madre. Due vendette sanguinose. Ma il testo sembra tradito nell’allestimento da tutta una serie di richiami da altri testi.
Quindi è un’opera sull’Orestea, più che una sua riduzione, con il proposito di rinnovare le domande sul senso della vita, della morte e della giustizia, accompagnando lo spettatore nei tempi antichi attraverso lo sguardo sempre attuale e vivo del Teatro.
Sembra un’opera pop, o punk, un’improvvisazione sullo stile del Free Jazz o della moderna musica contemporanea, con molti video, canti, danze, ma personalmente, esco dal teatro perplesso, incapace di capire che cosa il regista abbia voluto trasmettere agli spettatori.
Comunque va premiato l’impegno sia degli artisti che dei drammaturghi e traduttori dal greco, Simone Derai e Patrizia Vercesi.
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