Il primo dei tre concerti conclusivi del festival Jazz di Padova, al teatro Verdi, ha visto protagonista un Pat Martino in gran forma. Lo rivedo e riascolto con piacere a nemmeno due mesi dalla sua esibizione al Cotton Club di Tokyo, sempre alla guida del medesimo trio, completato da Pat Bianchi all’organo Hammond B3 e Carmen Intorre alla batteria.
C’è, e si avverte, un affiatamento tra musicisti insieme ormai da sette anni. Il set, seguito in silenzio da un pubblico attento anche se, inspiegabilmente, non troppo numeroso, si sviluppa lungo dieci pezzi, cinque dei quali ascoltati anche in Giappone.
Si parte con “Full House”, la prima di due composizioni di Wes Montgomery, realizzata ad una velocità maggiormente sostenuta rispetto al club. Forse in un piccolo locale si preferisce non disturbare il pubblico che ascolta mentre mangia. In teatro le improvvisazioni si allungano ed ognuno ha più spazio per dimostrare le proprie capacità inventive e tecniche.
Morbida e swingante è la versione di “In your own sweet Way”, di Dave Brubeck, un pezzo interpretato da parecchi grandi del Jazz, tra cui mi viene in mente subito Miles Davis, che lo inserì in uno dei quattro dischi Prestige – “Workin, Steamin, Cookin, Relaxin” -, nei quali interagiva con un giovane John Coltrane che di lì a poco avrebbe spiccato il volo con il suo quartetto.
Il secondo omaggio a Montgomery è “Four or six”. In evidenza, su un pedale mantenuto dal leader, improvvisazioni numerose da parte di Intorre.
Forse ancora più bella che in Giappone è la versione di “Footprints”, il magnifico 6/8 di Wayne Shorter. Inizialmente mascherato, finché ad un certo punto Martino lo fa riconoscere ed esplodere in tutto il suo splendore.
L’unica ballad in scaletta è ancora una volta “Duke Ellington’s Sound of Love” di Charlie Mingus. Il lato latino di Martino lo si ritrova in “The Island”, una medley di pezzi del cantautore e tastierista brasiliano Ivan Lins, tra cui spicca “Começar de novo”. A velocità sostenuta, ecco subito dopo “Impressions” di Coltrane. Ben ideata, “Round Midnight”, per ricordare la singolare scrittura di Thelonious Monk. L’unico brano originale è “Inside out”, un blues in 12 misure dal quale emerge il grande senso dello Swing dell’Autore.
Godibilissimo, come al solito, il bis. Ancora una volta Martino, in una maniera diversa rispetto a Tokyo, ripropone l’amato standard di Sonny Rollins, “Oleo”, di cui in genere si ricorda la magnifica versione di Miles Davis, uno dei musicisti preferiti del chitarrista americano.
L’ascolto a teatro del trio, nonostante il concerto duri maggiormente (97 minuti), rispetto al locale (70 minuti), risulta più dispersivo. Il palco è troppo grande, non c’è il contatto ravvicinato e, in più, il leggio di fronte a Pat non permette di vedere il movimento delle mani, se non spostandosi nei posti più laterali.
Applausi affettuosi salutano un musicista generoso che sarà lieto di dialogare nel back stage, concedendosi sorridente per le foto di rito e firmando, con una scrittura artistica, biglietti e copertine di dischi. Quanto all’organo Hammond, il suo suono è sì molto caldo, ma a lungo andare stanca, anche se chi lo suona, in questo caso Bianchi, tecnicamente non è in discussione. Il più giovane dei tre, la non ancora quarantenne Intorre, conferma di aver studiato intensamente i rudimenti dello strumento, sviluppati e inseriti con intelligenza nel tessuto di ogni brano.
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