Ormai da oltre 10 anni, e soprattutto in prossimità delle tornate elettorali, l’idea di Paese, di quello che vorremmo fosse l’Italia dei nostri figli e nipoti manca totalmente; di un piano quinquennale nemmeno l’ombra, ma il ritornello è sempre lo stesso: le famiglie italiane sono in sofferenza, la povertà e le disuguaglianze sono aumentate. In questi ultimi 5 anni poi ha preso forma una nuova narrazione: basta austerity imposta dall’Europa matrigna, andremo a Bruxelles a battere i pugni; è tempo di fare deficit con politiche assistenziali, spesso senza alcuna conoscenza della situazione sociale ed economica dell’Italia.
Tuttavia, in questi ultimi 5 anni di governi di centro-sinistra, a fronte di un risparmio per circa 70 miliardi di euro di interessi sul debito pubblico grazie alla Banca Centrale Europea e a Draghi, siamo riusciti nel miracolo di fare ulteriori 230 miliardi circa di nuovo debito tra 80 euro, bonus giovani, bonus cultura, bonus vari, sgravi contributivi, esodati, Ape sociale; tutti strumenti con l’encomiabile intento di ridurre la povertà (sul cui calcolo ci sarebbe da aprire un’indagine a carico dell’Istat). Per fortuna che eravamo in austerity, altrimenti chissà che debito avremmo fatto!
Ma siamo sicuri che in cima ai bisogni degli italiani ci siano le pensioni di cittadinanza e il reddito di cittadinanza?
Non è così per tanti motivi:
1) gli italiani sono in sofferenza perché manca una visione di futuro del Paese, un obiettivo di medio termine e anche un “sogno sociale” che possa rendere affamati di futuro i giovani “no naja, no educazione civica, ma NEET”;
2) le famiglie italiane soffrono perché manca il lavoro per i loro figli, per i padri che lo perdono e per le madri che non lo ritrovano. In termini di occupazione nel maggio di quest’anno abbiamo toccato i record di tutti i tempi con il 58,7% di tasso di occupazione globale (oltre 23.350.000 occupati) e il 49% di occupazione femminile battendo il record del 2008; tuttavia siamo ancora agli ultimi posti nelle classifiche europee, qualche volta prima della Grecia, di Cipro e Malta, ma ben lontani dagli obiettivi di Lisbona, che fissavano il 70% per l’occupazione complessiva (75% il tasso previsto dagli accordi di Lisbona 2) e il 60% di quella femminile. Occorrono quindi grandi investimenti in politiche attive per aumentare l’occupazione. Meglio assumere 8mila persone all’INPS in modo da fornire un serio servizio agli utenti piuttosto che pagare 50mila redditi di inserimento o di cittadinanza; meglio assumere 10mila medici di base che mancano piuttosto che dare altra assistenza. Il moltiplicatore sarebbe certamente più del doppio;
3) gli investimenti per migliorare la produttività – grande punto di debolezza per il secondo Paese manifatturiero d’Europa – l’occupazione, la ricerca e il capitale umano sono veramente modesti. Invece, spendiamo molto per le politiche sociali: a sanità, pensioni (oggi per fortuna in equilibrio) e assistenza sociale destiniamo il 55% di tutta la spesa pubblica che ogni anno va in deficit e quindi aumenta il nostro mostruoso debito pubblico; se rapportiamo la spesa sociale alle entrate contributive e fiscali, raggiungiamo e superiamo il 57%, battendo Paesi culla del welfare come la Svezia. Per far fronte a questa spesa utilizziamo tutti i contributi sociali, tutte le imposte dirette e parte delle indirette; insomma, per far funzionare tutto il resto, scuola, giustizia, amministrazioni centrali e locali resta poco e quasi nulla per ricerca e sviluppo. E poi ci lamentiamo se i nostri giovani emigrano dove possono mettere a frutto il loro sapere?
4) la spesa a carico della fiscalità generale (per due terzi assistenza sociale gestita dallo Stato e dagli Enti locali) è passata dagli 89 miliardi del 2012 ai 110 del 2017, ben 21 miliardi di spesa strutturale in più ogni anno. Sommando le spese assistenziali e i costi della sanità di coloro che le imposte non pagano, si raggiunge la ragguardevole cifra di quasi 130 miliardi netti. Si pensi che le pensioni, al netto delle imposte, costano 157 miliardi finanziate da 187 miliardi di contributi sociali; l’assistenza è finanziata dalle imposte. Peccato che il 46,5 % della popolazione paghi solo il 2,8% di tutta l’Irpef e che per garantire la sanità a questa parte della popolazione servano oltre 50 miliardi “finanziati” dal 30% circa di italiani che le imposte le pagano. Eppure, oggi si propone di portare le pensioni basse, in genere di chi non ha mai pagato né imposte né contributi a 780 euro netti al mese per 13 mensilità, molto più di quanto guadagnano tanti nostri giovani e di importo pari a quella di tanti artigiani, commercianti, donne e operai che hanno versato contributi e imposte per oltre 35 anni.
E chi mai, potendo, verserebbe ancora contributi sapendo che se evadi o te ne stai sul divano, alla fine una pensione da 780 euro, un affitto sociale e qualche sconto sui mezzi te lo danno di sicuro? Ma ci chiediamo: esiste la povertà economica? La risposta è sì! Ma per la metà è dovuta alla povertà educativa e sociale contro cui si battono in assoluta solitudine le Fondazioni di origine bancaria; povertà educativa, alimentare, sociale che perpetua la povertà vera e che si può ridurre significativamente con tanta, tanta educazione, a scuola e fuori. Per gran parte dell’altra metà serve il lavoro e la scuola che formi i giovani sulla base delle richieste del mercato.
Per il resto, serve far funzionare la macchina: noi oggi abbiamo persone che prendono 460 euro di pensione, 120 euro di sussidi dagli enti locali, hanno l’affitto calmierato, quando lo pagano, e magari agevolazioni sui mezzi pubblici: prendono più dei fatidici 780 euro, ma noi non lo sappiamo perché, a differenza di tedeschi, svizzeri o francesi, non abbiamo un’anagrafe dell’assistenza che per codice fiscale (vedasi l’esempio tedesco con i nostri connazionali ivi immigrati) ci dica quanto un soggetto prende. Solo con una macchina pubblica che funziona potremo aiutare i veri poveri e non foraggiare anche i furbi o, peggio, i malavitosi. Potremmo capire perché su 16 milioni di pensionati 8 sono totalmente o parzialmente assistiti, dallo Stato, dato non riscontrabile nei Paesi che hanno un progetto e un’amministrazione che funziona. Il reddito di cittadinanza si può fare, ma occorre avere un’anagrafe e centri per l’impiego funzionanti; diversamente è un limite allo sviluppo.
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