Il “Decreto Dignità 2.0” sta per essere convertito in legge e tra i provvedimenti ci sarà la reintroduzione dei voucher per il lavoro occasionale, ma vincolato solo ad alcuni settori, come l’agricoltura, il turismo e gli enti locali. Cosa che scontenta molte categorie, ad iniziare da Confapi.
«Sul tema voucher nell’ultimo anno e mezzo abbiamo assistito a un balletto assurdo – commenta Carlo Valerio, presidente di Confapi Padova -. Uno Stato serio non può cancellare misure importanti e utili solo perché non è in grado di controllarne l’efficacia, come è accaduto con il Governo che ha preceduto quello attualmente in carica. E così faccio mie le parole del presidente nazionale Maurizio Casasco: la decisione di reintrodurre i voucher ci trova pienamente d’accordo, ma ripristinarli solo in quei settori non basta. Chiediamo che i buoni lavoro vengano estesi anche alla piccola e media industria che, al pari degli altri comparti presi in considerazione, non è esente da picchi di produzione e da attività ad alta stagionalità. Siamo però altrettanto convinti che sia necessario definire al meglio i confini di utilizzo dei voucher e vigilare per evitare gli abusi, che ci sono stati e vanno assolutamente contrastati». Secondo Valerio «si deve essere realisti: i buoni lavoro, infatti, permettono alle piccole e medie imprese di gestire in maniera corretta limitate attività e vengono incontro ai bisogni delle nostre aziende che ovviamente sono diversi da quelli della grande industria. Non è un caso che in numerosi casi nelle nostre aziende i voucher si siano trasformati col tempo in contratti a tempo determinato e indeterminato e abbiano permesso l’ingresso al lavoro di giovani».
Ma quali sono state le dimensioni del “fenomeno” voucher prima che venissero soppressi nel marzo del 2017 sull’onda della minaccia referendaria promossa dalla Cgil? Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, ha provato a fare chiarezza. Il loro orizzonte temporale di vendita è stato di 104 mesi: da agosto 2008 al marzo 2017, quando sono stati abrogati. L’importo nominale di 10 euro di ogni singolo voucher comprendeva la contribuzione a favore della Gestione separata Inps (1,30 euro), quella in favore dell’Inail (0,70 euro) e una quota per la gestione del servizio (0,50 euro). Il compenso netto per il lavoratore era di 7,50 euro.
Complessivamente, considerando le statistiche messe a disposizione dall’Inps, in Italia sono stati venduti 433 milioni di voucher, concentrati soprattutto nel Settentrione: il NordEst, con 157,5 milioni di voucher venduti, incide per il 36,4%, mentre il NordOvest con 129 milioni per il 29,8%. La regione nella quale si è avuto il maggiore ricorso è la Lombardia, con 77,1 milioni di buoni lavoro venduti, seguita dal Veneto con 58,2 milioni (di cui 10,4 nel territorio padovano) e dall’Emilia Romagna con 53,8. Ma il dato più significativo è forse un altro: il numero medio di voucher riscossi dal singolo lavoratore è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, non andando oltre i 60-70 voucher l’anno. Poiché l’importo netto che il lavoratore riscuote per ogni voucher è di 7,50 euro, se ne deduce che il compenso annuale medio netto oscilla attorno ai 500 euro.
«Reintrodurre i voucher – conclude Valerio – magari modulandoli sulla base del fatturato aziendale, sicuramente non risolve i problemi del nostro mercato del lavoro, ma significa, per una volta, ascoltare le esigenze della Nazione. Concludo con una provocazione: non solo il loro campo di applicazione andrebbe esteso ad altri settori, ma sarebbe utile diversificarli remunerando diversamente lavori diversi e garantendo, in questo modo, che tasse e contributi previdenziali vadano regolarmente versati. Abbiamo sempre ritenuto che si trattasse di un ottimo strumento di flessibilità che andava incontro a un mondo del lavoro in evoluzione, in cui è impossibile regolare tutti gli ambiti con i contratti collettivi nazionali. È necessario essere realisti e ammettere che l’alternativa ai voucher, in molti casi, è il lavoro nero».