Di Giovanni Greto
Biennale Danza: il XII Festival Internazionale di Danza Contemporanea continua ad essere seguito da un nutrito pubblico di appassionati, affascinati dalla genuinità e dalla passione che i diversi artisti mettono nella realizzazione delle coreografie.
La coreografa canadese Marie Chouinard, per il secondo anno direttore del Settore Danza della Biennale, ha scelto di intitolare il Festival “Respirare, strategia e sovversione”. Nella sua ampia introduzione al catalogo, essa così descrive il lavoro del ballerino: «creare nell’assoluto silenzio; per ascoltare il corpo, il ritmo del respiro. Non rinchiudere il respiro in una struttura prestabilita dalla musica. respiro, sovversione e strategia per l’atto della creazione. Ascoltare il respiro del mondo, ascoltare il proprio respiro per costruire qualcosa di inedito che ci orienta verso il silenzio, quello che brulica di possibilità, che abbonda di presenza che è lo sfondo dell’esistenza». Sempre nel catalogo, il presidente della Biennale Paolo Baratta conclude così il proprio intervento: «il Festival di Danza sceglie di evidenziare lavori e pratiche non legate a linguaggi predefiniti, ma che si rinnovano continuamente. Chouinard ama artisti che non si limitano a comporre risultati esteticamente appaganti, ma che intendono il palcoscenico come un luogo di permanente cimento e scoperta, dove il linguaggio si rinnova coinvolto nello stesso percorso creativo e i suoi confini si spostano continuamente».
Quanto alla critica, ho assistito a quattro fra i numerosi spettacoli che si sono susseguiti quotidianamente per dieci giorni negli spazi dell’Arsenale.
“FLA.CO.MEN” è un anagramma della parola “Flamenco”, un mondo di cultura orale, popolare, di strada, che arriva diretto e forte, ma che richiede una vita per coglierne appieno le sfumature, rispettarlo e personalizzarlo, superando confini e stili: “rondena, taranto, tango flamenco di origine gaditana, tonà che appartiene ai cantes a palo seco, ossia senza accompagnamento, verdiales, di retroterra contadino, soleà di Cadice e Siviglia, madre del flamenco, fatta di strofe accompagnate dalla chitarra, malaguena, di Malaga, che è parte del cantes de levante, granaina”.
Direttore, coreografo e ballerino, protagonista sul palco è Israel Galvan, nato a Siviglia nel 1973 dai bailaores Josè Galvan ed Eugenia de Los Reyes. Per lo spettacolo si è avvalso dell’apporto del direttore artistico e coreografo di Sevillanas, Pedro Romero, artista e storico del flamenco, che ne ha studiato le componenti antifranchiste e le relazioni con le avanguardie e di Patricia Caballero, direttore di palcoscenico e coreografa di Alegrìas, la quale tende ad eliminare nel costume ogni marchio stereotipo, entrando ed uscendo dai codici espressivi prefissati, usando ombre e silenzi, canto-parola e seduzioni avvicinate agli spettatori. Bravissimi, gli otto attori/musicisti – cantanti, chitarristi, violinisti, bassisti elettrici, timpanisti, marimbisti, percussionisti, sassofonisti – creano in un arco temporale di 85 minuti una serie di quadri, stimolati dall’energia di Galvan.
Il leader colpisce ritmicamente con le adeguate calzature il pavimento ligneo e a volte i pedali di due grancasse, rivelando un acuto, istintivo senso ritmico. A volte indossa abiti femminili, una capigliatura arancione, inducendo al sorriso in una sorta di gioco non irrispettoso verso la tradizione. E’ veramente un maestro nel percuotersi la pancia e il corpo, che diventa uno strumento in contrapposizione alla voce umana e degli altri strumenti. Tutto si sviluppa a partire da un’introduzione che vorrebbe spiegare, a suon di passi, l’arte del flamenco, seguendo uno spartito posto su un leggio, in realtà una serie di fogli bianchi, gettati a terra con ferocia. Il pubblico si agita, vorrebbe quasi catapultarsi sul palco a danzare, suonare e scarica la tensione accumulata negli applausi finali e nelle grida che fanno rientrare più volte sul palco la simpatica compagnia.
Irina Baldini, giovane artista toscano-finlandese, rivelatasi nella scorsa edizione di “Biennale College Coreografi”, ha proposto in prima assoluta un nuovo spettacolo “Quite now”, in cui quattro performer cosmopoliti – l’italiana Elisa Vassena, il nipponico Iwaoka Takashi, lo spagnolo Victor Fernandez Duran, la francese Artémise Ploegaerts – «sono guidati – spiega Irina – dall’immediatezza della sensazione e dall’attenzione per il corpo mentre si produce nell’azione. Attingendo a molteplici fonti di informazione, sia intellettuali che fisiche, i danzatori cercano di affinare la loro abilità nel recepire provocazioni, desideri, delusioni, scegliendo tra la noia e l’abbandono a questi sentimenti. E’ attraverso il lavoro che i danzatori vanno alla ricerca di un fondamento, di un’origine. Che cosa apprendo dal mio corpo e da quello degli altri? Che cosa percepisco dei miei pensieri mentre cerco di eliminarli?»
Danza, musica e teatro sono presenti in “Bacchae – Prelude to a purge” della danzatrice e coreografa capoverdiana Marlene Monteiro Freitas, visto al teatro alle Tese. L’artista ha preso ispirazione dall’antica tragedia catartica, nel suo caso, “Le Baccanti” di Euripide. Il delirio, l’irrazionalità, la pazzia, ossia gli aspetti del mito dionisiaco, hanno liberato la sua fantasia per cercare di rappresentare un viaggio nella psiche umana. In oltre due ore i 13 artisti in scena – 12 più lei stessa – sono danzatori, musicisti, cantanti, mimi, attori.
Mentre il pubblico prende posto, cinque trombettisti vanno suonando su e giù per le scale o appoggiati alle pareti; tra gli altri otto sul palco, uno simula di percuotere un pad con un paio di bacchette, altri lavorano con dei leggii, altri sembrano dei tecnici (tre hanno delle cuffie audio), uno ha un guanto arancio ed una mascherina antigermi. Accanto a suoni dissonanti dal vivo, viene diffusa una musica assordante tipo techno. Ma si ascolterà anche del Reggae-Rap interpretato con swing, una divertente versione di “Desafinado” cantata coralmente, una rumba, un pop-samba, prima di sentirsi immersi in una lunga versione del Bolero di Ravel, in cui trova posto un frammento del “Prelude a l’apres-midì d’un faune” di Claude Debussy.
Lo spettacolo è frenetico, l’energia che si respira è selvaggia e contagiosa. Le numerosissime citazioni mettono una certa stanchezza, forse qualche taglio renderebbe il lavoro più snello. Anche perché non tutto il pubblico è in grado di riconoscerle: i balletti russi, la danza dada-surrealista, l’espressionismo tedesco, l’universo circense (divertenti, comunque, i grugniti, i belati, i ruggiti per identificare gli animali), la tradizione carnevalesca di Capoverde. Il finale è uno scoppiettante andirivieni tra il palco e le scalinate del teatro, con le trombe che suonano dal vivo sopra una base musicale sempre più assordante. Applausi, ululati, da parte della platea. Poi tutto si calma e allora Marie Chouinard conferisce alla coreografa il Leone d’argento, un premio che la Biennale dedica ai nuovi talenti.
Sudata, felice, emozionata, sorridente, Monteiro Freitas ringrazia ogni membro della compagnia, dice che il premio è del collettivo e si avvia a festeggiare, assieme ai trombettisti, per le strade di Venezia, incurante di svegliare quanti stanno riposando o cercando di addormentarsi nell’afosa e umida estate lagunare.
In prima assoluta, alle Tese dei soppalchi, è infine andato in scena “Le Sacre du Printemps”, del coreografo e biologo francese Xavier Le Roy. Egli stesso da solo nel 2007 aveva interpretato il capolavoro di Igor Stravinskij, facendo sensazione per un’attitudine inedita nell’uso dei movimenti e dei gesti del direttore d’orchestra come base per la sua coreografia. La nuova versione, in prima assoluta, è affidata a tre interpreti femminili che si alternano sul palco da solisti. Ad esse, Xavier ha chiesto di scegliere quella parte della musica che avrebbero voluto interpretare. Nell’ordine sono salite sul palco Scarlet Yu di Hong Kong, Eleanor Bauer, statunitense e la svedese Salka Ardal Rosengren. Le prime due hanno eseguito uno stesso frammento dell’opera, interpretato dai Berliner Philarmoniker : è stato perciò interessante vedere un modo diverso di conduzione. Tutte dirigono con elegante fermezza, immaginando tra il pubblico i musicisti destinatari dei loro gesti. Quando salgono sul palco tutte insieme, più che a una battaglia si assiste ad un gioco. E’ come se una offrisse il movimento per le altre, pur non essendo in grado di sapere quando l’altra entrerà. Oppure una lancia un’idea e l’altra la riprende.
A fine spettacolo, durato all’incirca un’ora, coreografo ed interpreti hanno incontrato il pubblico, con la collaborazione di Elisa Guzzo Vaccarino a tradurre e a moderare le domande dei presenti. Si è capito quanto studio personale e quante prove d’insieme siano state necessarie per giungere al risultato finale. Xavier, colpito dalla direzione di Simon Rattle, ha cercato di imparare quello che lui faceva. Senza conoscere nulla della musica, ha studiato i movimenti del direttore come se fossero una coreografia, col risultato che non sono i gesti del direttore d’orchestra che spingono i musicisti a suonare, bensì è la musica a produrre i movimenti. E si è chiesto: «quando si suona e quando si viene suonati da questa musica incredibilmente dinamica? Qual è l’attimo che precede il suono e cosa accade immediatamente dopo la riproduzione di quest’ultimo? C’è un’intenzione nel movimento dato dalla musica? Qual è l’attività motoria del suono? Di fatto c’è una narrativa che descrive il potere del direttore. E allora, come ci relazioniamo con chi ha il potere?» Al che, Eleanor Bauer ha commentato: «la cosa più difficile è fare il boss. Avere il potere senza fare del male».