Nomisma: l’agroalimentare esce rafforzato dalla crisi

Imprese più patrimonializzate e meno indebitate grazie ad una redditività che tra il 2011 e il 2016 è sempre stata a cavallo dell’8%, con punte del 12% nel caso del vino.  

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Meno imprese ma più solide, questo sembra essere il risultato di quasi un decennio di crisi che ha toccato, seppure in modo meno pesante rispetto ad altri settori, il settore agroalimentare italiano.

La recessione ha ridotto di quasi il 20% il numero di aziende agricole italiane, mentre nel caso dell’industria alimentare l’emorragia è stata più contenuta (-2,5% tra il 2009 e il 2015), con riduzioni più elevate nel caso delle micro imprese (quelle fino a 9 addetti), quelle cioè che presentano una propensione all’export più bassa (7% del fatturato) e che di conseguenza hanno subito maggiormente il crollo dei consumi interni (diminuiti di oltre il 10% a valori costanti tra il 2007 e il 2016).

Pur a fronte di uno scenario di mercato complicato, l’agroalimentare italiano non ha tradito la sua vocazione anticiclica (contrastando la recessione con prodotti innovativi e soprattutto incrementando l’export del 69% nel periodo 2007-2017), crescendo in termini di valore aggiunto di oltre il 10% contro un calo del 2% del totale manifatturiero.

Un’anticiclicità che si è espressa anche sul fronte della redditività. Secondo uno studio Nomisma per Agronetwork realizzato su un campione di oltre 5.400 bilanci di imprese di capitale operanti nel settore agricolo ed alimentare (in grado di esprimere un fatturato cumulato di quasi 92 miliardi di euro), la redditività – misurata come rapporto tra Ebitda e fatturato – è passata dal 7,8% del 2011 all’8,6% del 2016, mantenendosi costantemente al di sopra sia della media del settore manifatturiero che del totale dei quattro comparti rappresentativi il “Made in Italy”, “le 4 A”, vale a dire agroalimentare, abbigliamento-tessile, arredo-legno e automazione, il cui indice cumulato è passato da 6,5% a 7,9%.

L’analisi ha inoltre evidenziato come all’interno del settore vi siano stati comparti che hanno “sovraperformato”. Tra questi figurano il vino (il cui Ebitda margin è passato da 10% a 11,7%) e il dolciario (sempre sopra il 10% nel periodo considerato) mentre carni e lattiero-caseario sono risultati sotto la media.

Marginalità ancora superiori si sono registrate in alcune “nicchie” di mercato (baby & diet food con Ebidta margin vicine al 20%, acqua e bevande analcoliche, spirits, pasta, caffè e thè, prodotti da forno), mentre nei comparti tradizionali sono stati i segmenti ad alto valore aggiunto a restituire redditività superiori alla media: è il caso di salumi, gelati e cioccolato-caramelle rispettivamente per carni, lattiero-caseario e dolciario.

Ma quali impatti ha prodotto sulla struttura finanziaria delle imprese agroalimentari questo rialzo generalizzato dei margini negli anni più difficili dell’economia italiana? “A parte le grandi imprese, quelle con fatturato superiore ai 50 Milioni di euro, che hanno utilizzato l’aumento dei flussi di cassa generato da questa redditività per fare investimenti, la gran parte delle aziende ha deciso principalmente di abbattere l’indebitamento finanziario ed accrescere la propria solidità patrimoniale» afferma Denis Pantini, responsabile dell’area agroalimentare di Nomisma.

Basti pensare che il grado di patrimonializzazione, misurato dal rapporto tra patrimonio netto e totale del passivo, è cresciuto dal 39% al 44% per il totale delle imprese agroalimentari. Questo non significa che le aziende hanno diminuito il ricorso al debito bancario, tant’è vero che questa leva continua a rappresentare il 79% del debito finanziario complessivo e nel caso delle micro e piccole imprese, lo strumento principale – assieme all’autofinanziamento dei soci – per sostenere i propri percorsi di crescita.

Percorsi che, alla luce degli scenari evolutivi che attendono l’agroalimentare, sono principalmente indirizzati alla crescita dimensionale, allo sviluppo di prodotti innovativi e sostenibili nonché ad un aumento delle vendite sui mercati esteri. «Una maggior presenza sui mercati internazionali delle nostre imprese che, purtroppo, interessa ad oggi solo il 15% delle aziende agroalimentari italiane – sottolinea Pantini – e vede una forte concentrazione delle nostre esportazioni sui mercati di prossimità – come l’UE -, con valori di export ancora marginali sui paesi asiatici che però saranno quelli che in futuro cresceranno maggiormente sul fronte dei consumi alimentari».