Per la prima volta in Italia, un evento internazionale punta i rifettori su Ruskin-artista e sul suo rapporto con la città lagunare
Cosa sarebbe il mito di Venezia senza John Ruskin, cantore della bellezza eterna della città, tanto più affascinante ed estrema perché colta nella sua decadenza? Personaggio centrale nel panorama artistico internazionale del XIX secolo, scrittore, pittore e critico d’arte, l’inglese John Ruskin (1819-1900) ebbe un legame fortissimo con la città lagunare, alla quale dedicò la sua opera letteraria più nota, “Le pietre di Venezia”: uno studio della sua architettura, sondata e descritta nei particolari più minuti, e un inno alla bellezza, all’unicità ma anche alla fragilità di questa città visitabile negli spazi di Palazzo ducale dal 10 marzo al 10 giugno 2018.
Ruskin, ammirato da Tolstoj e da Proust, capace di influenzare fortemente l’estetica del tempo con la sua interpretazione dell’arte e dell’architettura, torna ora a Venezia nei luoghi della sua ispirazione; torna a Palazzo Ducale, edifcio emblematico che egli esplorò a lungo da angolazioni diverse: taccuini, acquarelli, rilievi architettonici, calchi in gesso, albumine, platinotipi.
Ad ospitarlo è la sequenza di sale e loggiati tante volte raffigurati, ove la scenografa di Pier Luigi Pizzi dà risalto alle presenze architettoniche e scultoree della Venezia gotica e bizantina, medievale e anticlassica che egli tanto amava e che desiderava preservare dall’oblio.
Voluta da Gabriella Belli quale tributo alla conoscenza e al mito di Venezia, la mostra è curata da Anna Ottani Cavina: prima presentazione a tutto campo, in Italia, dell’opera di un artista che “ha valicato ogni confine in nome di una visione interdisciplinare, praticata quando il termine ancora non c’era”.
Pervaso da spirito religioso maturato nell’Inghilterra vittoriana, animato da una visione etica, che lo spinse ad agire sul piano sociale e politico con l’obiettivo utopico di una società organica e felice per tutti (tanto che Gandhi ne sarà incantato), strenuo oppositore del meccanicismo e del materialismo che vedeva diffondersi, Ruskin nel corso della sua vita opera e s’interroga sulle questioni sociali, sull’arte, sul paesaggio e sulla Natura; scrive di mineralogia e di botanica, così come di economia, architettura e restauro, preoccupato che le tecniche allora in uso finissero con il cancellare gli edifici medievali.
La mostra fa una scelta e, non potendo dare conto della complessità di Ruskin e del suo genio versatile in tanti e diversi campi, si focalizza sull’artista, articolandosi attorno a cento sue opere che ne documentano la vocazione a tradurre in immagini la realtà, fissando su migliaia di fogli, a penna e acquarello, il suo “instancabile tentativo di comprendere il mondo”. Si tratta eccezionalmente di prestiti tutti internazionali – un grande merito dell’esposizione – considerato che i musei italiani non custodiscono sui lavori.
“Lo sguardo colorato di Ruskin – scrive Ottani Cavina – sarà una rivelazione per il pubblico italiano, poiché è lui il più grande acquarellista dell’età vittoriana”. Monito per la salvezza di Venezia, la mostra vuole dunque essere anche una s da a celebrare John Ruskin come grande e singolare pittore, al di là del suo eclettismo e della sua stessa determinazione a privilegiare la parola scritta.
Un incontro fondamentale quello avvenuto, in giovane età, con un maturo Turner al quale, secondo Ruskin, “la natura ha dato un occhio particolare e un’immaginazione selvaggiamente bella”: tanto che del “pittore della luce” saranno in mostra alcune straordinarie raffigurazioni della città lagunare, come “Venezia, Punta della Dogana e Santa Maria della Salute” prestato dalla National Gallery di Washington e “Venezia, cerimonia dello Sposalizio del mare” dalla Tate di Londra.
La pittura di Ruskin non punta in realtà al sublime come quella di Turner, né all’astrazione tutto colore e luce: è descrittiva, analitica, finalizzata a immortalare la realtà; eppure nello studio del dato naturale o nella ossessiva resa dei particolari architettonici c’è assoluta visionarietà, convinto – proprio dai quadri del «suo» Turner – che il vero artista sia un veggente, un profeta o, addirittura, uno «scriba di Dio», capace cioè di cogliere e rappresentare la verità divina contenuta nella realtà naturale.
Oltre al viaggio in Italia e alla fascinazione per la natura – con una serie di acquarelli che privilegiano il tema della montagna e i paesaggi della penisola – il cuore dell’esposizione è comunque il rapporto dell’artista con Venezia.
Questo legame, coltivato nell’arco di una vita, a partire dal primo incontro a sedici anni, e alimentato in undici viaggi tra il 1835 e il 1888, è esplicitato sotto diversi punti di vista – Studi di nuvole, Tramonti, Pleniluni, Scorci della laguna, Studi dai grandi pittori veneziani: Carpaccio, Veronese, Tintoretto – ma verte essenzialmente sul tema cruciale della “natura del gotico”, con la sua riscoperta e celebrazione: il momento più alto dell’arte e dell’architettura non solo dal punto di vista estetico ma anche morale.
Il testo di riferimento è il magnifico libro “The Stones of Venice” (1851-1853, 3 volumi), al quale si aggiungono le scenografiche tavole in folio degli “Examples of the Architecture of Venice”, pubblicate negli stessi anni, e “St. Mark’s Rest”, nato come revisione de Le pietre di Venezia, dopo che egli aveva assistito alla demolizione di parti importanti della Basilica di San Marco, e divenuto una guida della città “per i pochi viaggiatori che ancora hanno a cuore i suoi monumenti”.
Infine, ad accompagnare in questo affascinante viaggio, c’è anche una selezione dei “Venetian Notebooks” (taccuini di schizzi, misurazioni, piante, spaccati e fittissimi appunti), quindi manoscritti di Ruskin per “The Stones of Venice” (frammenti di carta azzurra mai prima esposti e conservati alla Morgan Library di New York), alcune prime edizioni a stampa, dagherrotipi, foto storiche e dipinti emblematici dei grandi pittori del Cinquecento veneziano a confronto con gli studi che il critico inglese aveva tratto da essi.