L’attrazione esercitata da Venezia, città di cui “l’aria fa liberi, rende liberi gli schiavi”
Di Giuseppe Pace
Parliamo di un suo primato storico mondiale: l’abolizione della schiavitù. Ho esperienza di viaggi (oltre a pubblicarne anche un saggio con la casa editrice online patavina leolibri.it) in Africa orientale, dove l’allargamento del dominio diretto degli europei nei secoli XIX e XX fu facilitato dal declino della potenza turca e musulmana nell’Africa settentrionale nonché dalla debolezza delle formazioni politiche, spesso tribali, già esistenti. In queste zone la caratteristica dominante, prima del colonialismo inglese, tedesco, italiano, ecc., era l’esistenza di società rurali “senza Stato”, dominate da capi tribù e caste di sacerdoti depositari dei riti di religioni primitive animiste e feticiste.
Altri sacrati o sacerdoti svolsero un ruolo di rilievo nella penetrazione europea in Africa e le missioni religiose, cattoliche e protestanti, si proponevano e in parte si propongono ancora di evangelizzare gli “indigeni”. Anche gli esploratori hanno svolto una funzione sia di aprire nuovi commerci che di far conoscere al più vasto pubblico l’Africa di NordEst. Essi agivano a volte per conto di società geografiche o commerciali interessate allo sfruttamento delle materie prime locali. Tra questi esploratori meritano essere ricordati, oltre all’italiano Pierre Savorgnan de Brazza, uno dei fondatori dell’impero coloniale francese in Africa, lo scozzese David Livingstone che scopri il fiume Zambesi e i laghi Niassa e Tanganica, l’inglese Heney M. Stanley che permise di tracciare buone carte geografiche africane.
Nel Medioevo, ma anche dopo la scoperta delle Americhe del XV secolo, dietro esploratori, società geografiche europee e ordini religiosi in Africa, non sempre venivano perseguiti nobili scopi. Lo schiavismo è stata una triste e dolorosa tappa della storia dell’uomo bianco che ha schiavizzato milioni di negri, fino ai primi decenni del XIX secolo anche se Venezia e la sua Repubblica oligarchica di nobili illuminati ne aveva decretato l’abolizione nel X secolo. Solo con il Congresso di Vienna del 1815 venne sottoscritta una Dichiarazione contro la tratta dei negri. Nel Congresso di Verona del 1822 si arrivò ad una più impegnativa Dichiarazione relativa all’abolizione della tratta dei negri. Anch’essa, però, non andava oltre una vaga genericità.
La cifra totale di schiavi che hanno lasciato il continente lungo i secoli è incerta. Non esistono documenti completi. Qualunque sia la stima, è certamente vero che l’Africa ha perso milioni di persone, solitamente le più giovani e forti e che interi sistemi economico-sociali sono stati distrutti dalle razzie e dalle loro conseguenze. A onore del vero anche in epoca fascista, 1935, non mancò il legale contributo italiano all’abolizione dello schiavismo che segue di un millennio circa quello dell’epoca della Repubblica Marinara di Venezia. a Verona, dove il vescovo Rataldo donava ai canonici la decima parte delle vesti, “quae de pisile veniunt et de gineceo”. Nel sec. IX lo stesso commercio era esercitato pubblicamente dai Veneziani che nel “Pactum Lotharii” dell’840 s’impegnano a non comperare cristiani del regno per venderli ai pagani, e ancora nel 1007 il convento di S. Benedetto di Conversano otteneva l’esenzione dall’imposta per tutti gli schiavi che comperasse sul mercato di Bari per il servizio del monastero. I Veneziani conclusero un trattato con i Franchi (il Pactum Lotharii dell’840) con cui si comportavano né più né meno come uno stato autonomo.
Ciò non significava l’indipendenza da Bisanzio, almeno come siamo soliti intenderla nei nostri schemi storici: da parte bizantina si seguitava a guardare a Venezia come una lontana provincia e da parte veneziana, non si sa se più per comodità che per convinzione, si continuò a lungo ad accettare una supremazia ideale di Bisanzio. Venezia mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’Oriente fino al XII secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi, e l’aspetto più importante di questa furono i privilegi commerciali concessi a partire da Basilio II nel 992 e consolidati a partire dal 1082 con la crisobolla con cui Alessio I Comneno consentì ai Veneziani di commerciare in quasi tutto il suo impero senza pagare tasse. Risale anzi a quest’epoca e alle numerose importazioni di servi dai paesi slavi l’uso diffusosi presto in Italia e, dopo il sec. XII, anche in Francia di designarli col nome di schiavi.
Dopo il Mille e specialmente nell’età dei comuni, il moltiplicarsi delle famiglie coloniche, il frazionamento delle terre dominiche, l’attrazione esercitata dalle città di cui “l’aria fa liberi”, vengono a distruggere a poco a poco, nell’Europa occidentale, ogni funzione della schiavitù nell’economia agraria e nella produzione industriale. Ma accanto a questi schiavi addetti alla casa e alla produzione industriale non mancavano, almeno nei primi secoli dopo l’invasione, anche i servi rustici veri e propri; l’editto di Teodorico parla dei “rustica utriusque generis mancipia”, contrapponendoli ai servi addetti “urbanis ministeriis”; nelle Variae di Cassiodoro si dice che possono migliorare la loro condizione quei servi “qui de labore agrorum ad urbana servitia transferuntur”; papa Gregorio I parla di alcuni suoi messi, ch’erano andati in Sicilia a raccogliere alcuni “mancipia”, e stabilisce che siano condotti sulle terre dove devono lavorare, e che il frutto del loro lavoro, “reservato unde ipsi possint subsistere”, sia mandato ogni anno al monastero di S. Sebastiano.
Lo stesso papa, nella lettera famosa al vescovo di Luni, con cui lo invita a impedire che gli Ebrei tengano al loro servizio schiavi cristiani, stabilisce tuttavia che i servi residenti sulle loro terre siano bensì personalmente liberi, ma seguitino a coltivare quelle terre “utpote condicionem loci debentes”, passando dalla condizione di “mancipia” a quella di coloni. La distinzione si mantiene ancora al tempo di Rotari, il quale colloca il “servus rusticanus” molto al disotto del “ministerialis”, e anche più in basso il “servus rusticanus qui cum massario est”.
Testimonianze simili si trovano pure per l’età carolingia, in modo che è indubitato che, per quattro o cinque secoli dopo la caduta dell’impero, si continuano a trovare sulle grandi proprietà dei gruppi di schiavi che dipendevano direttamente dal signore o dal suo fattore, erano usati da lui, a suo arbitrio, per l’uno o per l’altro lavoro, riuniti per lo più in abitazioni comuni e da lui forniti di vesti e di vitto, donde il nome di “provendarii”, così frequenti nelle grandi proprietà ecclesiastiche della Francia, e che il “Capitulare de villis”, distinguendoli dai servi che hanno il loro manso e vivono di quello, definisce come coloro che non lo hanno “et de dominica accipiunt provendam”. Il peculio (paratum et conquestum), che il servo riuscisse a costituirsi, era considerato come proprietà del padrone il quale, manomettendo il servo, poteva tenerlo per sé. Il servo aveva sopra di esso una disponibilità limitata, subordinata al consenso del padrone.