La scossa del 6 maggio 1976, cui fecero seguito, oltre allo sciame che durò settimane, quelle altrettanto devastanti di settembre – causò mille morti e colpì una vasta area del Friuli collinare da Osoppo a Gemona, da Venzone a Trasaghis, da Majano a Colloredo di Montealbano. Una rinascita che resta esempio efficienza
Mancano pochi giorni per la commemorazione ufficiale dei 40 anni dal disastroso terremoto della sera del 6 maggio 1976, quando in una calda nottata, poco dopo le 21, la terra tremò e per il Friuli nulla fu più come prima. In pochi secondi un mondo, un modo di vivere, una cultura, un’intera comunità vennero spazzate via. Ma sul momento non si capì.
Qualcuno pensava a un bombardamento, altri a scoppi di depositi di qualche polveriera della zona. Insomma non era chiaro. D’improvviso le comunicazioni si interruppero, le linee erano sovraccariche, e a dialogare con i “presenti sui posti” furono solo i radioamatori. «Qui è tutto un polverone, si sentono grida in lontananza… non capiamo, forse c’è stato un terremoto».
Queste furono le primissime dichiarazioni degli autotrasportatori che passavano nelle zone di Venzone, Gemona, Osoppo. E la notte non aiutava. Si era risvegliato l’“Orcolat” (l’orco, come da queste parti viene soprannominato il terremoto) e in pochi secondi si era trascinato tutto con sé. Solo alle prime luci del mattino dopo fu chiaro il quadro. Ovunque distruzione, ovunque case crollate, ovunque morte. Il terremoto aveva squassato il Friuli. E subito partì la solidarietà. In quei giorni protagonisti furono in primo luogo i giovani friulani che a centinaia partirono per i luoghi colpiti dal sisma nel tentativo di salvare qualche vita umana. Si formarono squadre coordinate dai sindaci, dai Vigili del fuoco e dagli alpini della Julia.
Nei paesi più colpiti dalle scosse furono salvate vite umane, grazie al lavoro – a mani nude – di tantissimi “angeli”. Subito cominciò l’opera di smassamento di quello che restava delle case, dei fienili, delle stalle. Il giorno dopo lo Stato arrivò con Giuseppe Zamberletti subito nominato commissario straordinario dal presidente del Consiglio Aldo Moro. Sul campo rimasero quasi mille morti e un terzo della regione Friuli Venezia Giulia devastato. Ma non era finita. Se la scossa del 6 maggio fu quella che mise in ginocchio il Friuli, il colpo di grazia doveva arrivare con le scosse di settembre che completarono la distruzione e obbligarono Stato e Regione a pensare di trasportare bambini, giovani e anziani lontano dall’epicentro. Subito si pensò alle località marine di Grado, Lignano, Bibione e Caorle dove ricostruire le comunità, mentre per gli “attivi” si pensò di requisire migliaia di roulotte in giro per l’Italia, di concentrale nei paesi maggiormente colpiti per garantire almeno un minimo il lavoro nelle fabbriche che non erano state colpite dalla distruzione.
Il motto di allora, che diventò un vero e proprio proclama politico-istituzionale, fu “prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese”: fu una scelta comune fatta propria anche dalla curia udinese. Si comprese che bisognava garantire il lavoro ai residenti, mettere in salvo i nuclei familiari e poi pensare alla ricostruzione che si voleva “dov’era e com’era”. Fu un’azione unitaria straordinaria.
Lo Stato delegò la Regione – con il coordinamento del Commissario straordinario – mentre questa, forte anche della sua autonomia, delegò ai comuni. I sindaci, per la prima volta nella storia d’Italia divennero protagonisti del futuro delle loro comunità. Era, “in nuce”, la prova generale della moderna Protezione civile. Tutto fu possibile grazie alla solidarietà nazionale e anche a quella internazionale essendo i friulani “lontani dalla Piccola Patria” ben più numerosi dei residenti. Aiuti arrivarono subito dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dall’Australia e da tantissimi Paesi europei.
A quarant’anni da quei tragici giorni, a ricostruzione largamente completata (a differenza di altre realtà italiane dove a decenni si parla ancora di ricostruzione incompleta), si stima che il tutto sia costato circa 13 miliardi di euro. Una cifra non particolarmente alta se si pensa ad altre esperienze dove la spesa è esplosa senza controllo e con risultati largamente insoddisfacenti. In Friuli oggi tutto è a posto, con i paesi sono stati tutti ricostruiti più belli di prima. L’“Orcolat” sicuramente non farebbe quella strage visti i sistemi antisismici di ricostruzione e se, pur nelle difficoltà della crisi, oggi si può parlare di popolo friulano, lo si deve anche a quella straordinaria opera che è stata la ricostruzione del Friuli.
Il sisma che nel 1976 colpì il Friuli – la scossa principale del 6 maggio cui fecero seguito, oltre allo sciame che durò settimane, quelle altrettanto devastanti di settembre – causò mille morti e colpì una vasta area del Friuli collinare da Osoppo a Gemona, da Venzone a Trasaghis, da Majano a Colloredo di Montealbano. Le scosse furono avvertite chiaramente a Udine, Gorizia, Pordenone, Trieste e in tutta la bassa Friulana. Anche nel resto del Paese l’“Orcolat” si fece sentire e causò paura e panico. Le case distrutte furono 18.000 mentre quelle danneggiate oltre 75.000. I comuni che subirono danni irreparabili furono 45, mentre quelli danneggiati – nelle province di Udine e Pordenone – furono 92. Trecentomila furono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nel dramma.
«Un ruolo straordinario lo ebbero la Chiesa e la Caritas di Udine – ricorda Zamberletti – che fecero da collante e aiutarono le persone a non scoraggiarsi e a sentirsi ancora comunità».