I dati del Rapporto 2014, realizzato da Unioncamere e Cise. I percorsi innovativi riguardano soprattutto i prodotti (21,5%) e i processi (18%). La ricerca si focalizza soprattutto sul prodotto, alta la quota di aziende della filiera hi-tech
Alla ricerca di nuove opportunità, obiettivi, risorse e collaborazioni. Si declina così per le imprese il termine innovazione. Nonostante la crisi, in Emilia-Romagna le aziende innovano: in regione, infatti, i valori sono sopra la media nazionale – e in linea con quella delle regioni leader – per quanto concerne la capacità delle imprese di realizzare cambiamenti al passo con i tempi. Il 60% di imprese ha introdotto un’innovazione nell’ultimo triennio.
E’ alta anche la quota di aziende che operano su prodotti e filiere hi-tech. E’ quanto emerge dall’analisi dei dati del Rapporto regionale 2014 sull’innovazione, promosso da Unioncamere Emilia-Romagna con la collaborazione tecnica del Cise (azienda speciale della Camera di commercio di Forlì-Cesena) e Camere di commercio della regione.
L’indagine è stata realizzata tramite un questionario strutturato sottoposto a un campione di 1.622 imprese emiliano-romagnole, assai significativo rispetto al PIL totale regionale, con una rappresentatività di oltre 1/4 del prodotto interno lordo totale
I settori economici maggiormente rappresentati nel campione sono, in linea con la realtà economico-produttiva regionale, la meccanica (16,3% dei casi), la metallurgia (15,3%), l’agro-alimentare (13,8%), il commercio (11,6%) e l’altro manifatturiero (10,6%). Con l’Osservatorio Innovazione 2014 si è estesa per la prima volta l’indagine anche al macro-settore dei servizi: sono state intervistate oltre 400 imprese del terziario, operanti per lo più nel commercio e nel comparto del turismo (alloggi, ristorazione…).
Numerose altre le variabili di sfondo utilizzate per caratterizzare meglio le risposte fornite dalla imprese intervistate: dotazione tecnologica, green economy, rapporto con le ICT, mega-trend.
«Questa edizione dell’indagine ha coinvolto imprese più strutturate, ritenute potenzialmente terreno più fertile per la realizzazione di innovazione – fa notare Valerio Vanelli docente all’Università di Bologna e curatore del Rapporto -. In altre parole, si è voluto andare ad analizzare il fenomeno dell’innovazione nei contesti in cui è più alta la probabilità che si manifesti: i risultati delle precedenti rilevazioni hanno infatti mostrato che l’innovazione viene più di frequente introdotta dalle imprese più strutturate, di maggiori dimensioni e con più potere di investimento, oltre che dalle società di capitali. Il coinvolgimento di queste imprese permette, fra l’altro, una lettura congiunta dei dati di bilancio con le principali dimensioni del fenomeno dell’innovazione».
Guardando all’ultimo triennio, il 39,1% delle imprese intervistate dichiara di non avere introdotto alcuna innovazione negli ultimi tre anni (dato in miglioramento, rispetto al 53,6% del 2013 e al 58,0% del 2012, pur tenendo conto della ridefinizione del campione, costituito da imprese più strutturate e più inclini all’introduzione di innovazione). Oltre il 60% delle imprese dichiara di aver innovato: di queste, il 21,5% ha introdotto innovazioni di prodotto e una percentuale pari al 18% innovazioni di processo, in entrambi i casi di tipo incrementale.
Innovazioni radicali hanno riguardato una quota minore di casi: il 9,7% delle imprese emiliano-romagnole ha introdotto innovazioni di prodotto e il 5,5% di processo. L’innovazione radicale è stata generata principalmente all’interno dell’azienda.
Il settore maggiormente innovativo risulta quello dell’elettricità e dell’elettronica (appena il 16,7% di imprese non innovative), seguito dalla meccanica (30,0%) e dalla chimica/farmaceutica (32,0%). Le imprese che non hanno introdotto alcuna innovazione sono soprattutto riconducibili al settore della carta e dell’editoria e all’industria dei mobili, mentre si registra una chiara crescita di imprese innovative nell’industria dei materiali non metalliferi (37,2% di imprese non innovative a fronte del 62,5% del 2013).
Le differenze non riguardano soltanto il settore produttivo bensì la dimensione di impresa, con quelle più grandi che si dimostrano, come atteso, maggiormente in grado di innovare; la forma giuridica, con il 37,8% di imprese non innovative fra le società di capitali e quasi il 51% fra quelle di persone; il grado di specializzazione e dotazione tecnologica, con una riduzione progressiva della quota di imprese non innovative al crescere del livello di specializzazione e dotazione tecnologica dell’impresa.
«Una relazione nitida emerge con riferimento al grado di apertura al mercato internazionale dell’impresa – sostiene Valerio Vanelli – fra le imprese con mercati di sbocco collocati esclusivamente a livello locale non ha innovato oltre la metà dei casi (51,1%), mentre fra quelle con un maggior grado di apertura, che presentano dunque tra i propri clienti soggetti collocati in paesi esteri del mercato globale, la percentuale scende al 21%. Si può ritenere che la relazione tra grado di internazionalizzazione dell’impresa e innovazione realizzata sia di tipo bi-direzionale. Dall’analisi dei dati dell’Osservatorio emerge che tra le imprese che hanno introdotto almeno un’innovazione nell’ultimo triennio il 38,4% ha accresciuto le proprie esportazioni mentre fra le imprese non innovative quelle che hanno aumentato le proprie esportazioni sono il 26,9%».
La principale criticità, indicata da oltre otto imprese su dieci, così come già nelle tre precedenti indagini dell’Osservatorio Innovazione, è l’eccessiva pressione fiscale. Secondo principale ostacolo all’innovazione è il rischio d’impresa percepito come troppo elevato, in particolare dalla piccola impresa, seguito dalle difficoltà strategiche di mercato, in termini di limitata conoscenza da parte dell’impresa del mercato, della concorrenza.