Il Trio di Tino Tracanna e il Quartetto di Bill Frisell infiammano il pubblico
di Giovanni Greto
Cormòns, piccola città al centro del Collio goriziano, crocevia di culture diverse – italiana, friulana, slovena, austriaca – per la XVII volta è diventata il punto d’incontro di musicisti di tutto il mondo, grazie ad un festival, “Jazz & Wine of Peace”, nel quale trovano posto il valore dell’amicizia tra le genti ed un universale messaggio di pace. 13 i concerti sparsi nel territorio goriziano, in quello udinese e nella vicinissima Nova Gorica slovena.
Chi scrive ha assistito il 24 a Villa Russiz, a Capriva del Friuli (Go), al concerto del sassofonista soprano e tenore e compositore Tino Tracanna, che ha presentato il suo ultimo progetto, “Tre”, vale a dire il frequente trio “pianoless”, da sempre nel Jazz sinonimo di libertà improvvisativa. In 85 minuti, Tracanna ha proposto una scaletta bene ordinata, passando dallo swing trascinante di brani come quello iniziale, “New mind lines”, a tempi medio/lenti come in “Semplicity”, un tema assai melodico, esposto al sax tenore. E’ un ¾ veloce “Kim”, titolo scelto dal leader per rendere omaggio ad una diva degli anni ’50, Kim Novak, mentre “PFC Concept”, brano composto nel 1990, è dedicato a Paolo Fresu – l’acronimo sta per “Paolo Fresu cromatic” – e al suo amore per l’improvvisazione sui cromatismi. Bisogna sottolineare come, fin dalla sua fondazione nel 1984 dello storico “Paolo Fresu Quintet”, Tracanna abbia rappresentato un elemento fondamentale nello sviluppo del combo. Incuriosisce, nel repertorio del sassofonista, la scelta di titoli che inducono al dibattito come “Notti eluse ed attese deluse”, non sviluppatosi nell’occasione per mancanza di tempo, o brani esoterici come “Adagio”, in cui Tracanna si esibisce, oltre al tenore, alla melodica. Non manca una ninna nanna, “Eternina”, composta 18 anni fa in occasione della nascita della figlia, nella quale si apprezza un lungo assolo supermelodico del contrabbassista Giulio Corini. Attento nei numerosi stacchi, ben segnalati da brevissimi assolo, il batterista Vittorio Marinoni porta con sé un set di piatti di marche diverse, tra i quali spicca un “ride” dall’interessante sonorità oscura. Abile con bacchette, spazzole e mallets, Marinoni è stato bravo anche a conferire colori diversi e a differenziare le atmosfere mutevoli negli assolo dei compagni.
Il concerto ha avuto una sorpresa finale, quando in due brani scelti come bis, “Misterioso” di Thelonious Monk e “Pow How”, il piccolo indiano le cui amate avventure nei Caroselli degli anni ’60 deliziavano il sassofonista, è stato invitato a salire sul palco “uno dei chitarristi più originali dei nostri giorni”, secondo i critici musicali del “Boston Phoenix”, il raffinato, sensibile, creativo musicista americano Garrison Fewell, giramondo per oltre 30 anni e dal 1977 insegnante nel prestigioso, per chi ambisce a far carriera nel jazz, “Berklee college of music” di Boston. I suoi assolo sono apparsi adatti ad inserirsi nelle tessiture sonore del trio. Il suono pulito, privo di distorsioni e senza vibrato, intriso di spiritualità, ed un’abilità tecnica di indiscutibile qualità hanno ipnotizzato la platea per nulla impaziente a trasferirsi al piano di sopra dove era stata approntata una piccola degustazione vinaria, visti i pregiati vigneti di cui è ricca la regione.
Senza fretta, ci si trasferisce al teatro comunale di Cormòns per ascoltare il collaudato quartetto del chitarrista e compositore americano Bill Frisell, spesso ospite del festival. Il nuovo progetto, tra poco in uscita discografica, “Guitar in the space age”, si addentra nel repertorio pop di un certo tipo di musica “easy listening” degli anni ’60, particolarmente gradita al giovane Bill. Nei 10 titoli selezionati, Frisell passa da uno swingante jazz “old style”, all’amato “Country and Western”, molto ben arrangiato, anche se lo spessore dei brani – si riconoscono tracce di “Byrds” ed “Adventures” – non porta l’ascoltatore ad entusiasmarsi. La band è comunque molto “in palla”, dall’alter ego del leader al dobro, posizionato orizzontalmente come fosse una tastiera, la chitarra con corde metalliche, pizzicata da una serie di unghie, che produce un suono simile a quello dei mitici Santo & Johnny, Greg Leisz, il quale si alterna negli assolo con Frisell anche alla chitarra elettrica, ma soprattutto colora fecondamente ogni brano. Inesauribile il lavoro di Tony Scherr, più allo strumento elettrico che al contrabbasso, pulsazione e punto di riferimento per le improvvisazioni. Ai confini dello scatenamento, pur se confinato in tempi molto semplici, il batterista Kenny Wollesen dà prova di abilità nel passare da episodi concitati ad altri più pacati , nei quali le spazzole prendono il posto delle bacchette.
Che dire? C’è in platea chi si annoia, chi invece non si perde una nota di tutto quello che gli arriva all’orecchio. Va comunque sottolineata l’onestà di un musicista che dopo una lunga permanenza nel jazz d’avanguardia alla testa di un trio stellare (con Joey Baron e Kermit Driscoll) con il passare del tempo ritorna bambino ed insiste nel voler assaporare musiche, che presumibilmente costituivano una sorta di narrazione nel passaggio dall’adolescenza all’età matura. Applausi sinceri e consueta bevuta, solo per i musicisti, ahimè, del vino della pace.