Pensionamento dei dipendenti pubblici verso il superamento dell’obbligo a 67 anni

Il governo studia rinvio volontario della pensione per arginare la perdita di personale. Il no di Cgil e Uil. La Cisl: «libertà di scelta, niente vincoli».

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Nei prossimi cinque anni, tra il 2024 e il 2028 nelle pubbliche amministrazioni serviranno 846.000 assunzioni per fare fronte al pensionamento dei dipendenti pubblici (circa 773.000 in uscita entro cinque anni), ma anche per coprire nuovi fabbisogni soprattutto nella sanità e nell’assistenza.

Il governo Meloni starebbe valutando un intervento specifico per mantenere i dipendenti al lavoro su base volontaria, rimandando il pensionamento dei dipendenti pubblici dopo l’età di vecchiaia di 67 anni. Ipotesi alla quale apre la Cisl, ma che non piace affatto a Cgil e Uil.

Secondo le previsioni aggiornate del Rapporto Excelsior, saranno necessarie oltre 169.000 entrate l’anno per la stragrande maggioranza di persone con una laurea. E di fronte alle difficoltà nelle quali si potrebbe trovare l’amministrazione, soprattutto per quanto riguarda l’erogazione dei servizi, il governo starebbe ipotizzando una norma per consentire la permanenza al lavoro dopo i 67 anni in modo sostanzialmente automatico, senza quindi che sia necessaria la richiesta del lavoratore all’amministrazione sul trattenimento in servizio una volta raggiunta la soglia anagrafica. L’amministrazione quindi, con questa ipotesi, non potrebbe respingere la richiesta come può avvenire ora. Chi invece vuole andare in pensione all’età prevista dalla legge potrà continuare a farlo facendo domanda (senza che possa essere respinta), ma l’uscita non sarà più automatica come oggi.

Nel pubblico con l’età di vecchiaia vanno in pensione circa la metà di quelli che vanno in anticipata (prima dell’età di vecchiaia come con le “Quote” o con 42 anni e 10 mesi di contributi). Nel 2023 le pensioni di vecchiaia nel pubblico decorrenti nell’anno, infatti, sono state circa 28.000 a fronte delle circa 57.000 anticipate.

La proposta parte dalla difficoltà riscontrate nei vari concorsi indetti a coprire le posizioni messe a bando, specie per le qualifiche più alte per le quali è richiesta la laurea e soprattutto per le discipline scientifiche e tecniche, a favore di occupazioni più dinamiche e meglio retribuite rinvenibili nel privato e, tendenza molto in voga, all’estero. Poi, c’è la questione delle città del Nord nelle quali il costo della vita è molto più alto nelle quali il lavoro pubblico non è così appetibile. E non è facile per gli equilibri del bilancio pubblico, aumentare di molto i livelli retributivi, di parametrarli sul costo della vita differente dei vari territori per via dell’opposizione dei sindacati ancorati al mantenimento del feticcio al salario uguale dalla Vetta d’Italia a Capo Passero, sorvolando sul fatto che così si penalizzano i lavoratori impiegati dove il costo della vita è maggiore.

Delle 846.000 persone che serviranno nella pubblica amministrazione entro il 2028, 773.600 serviranno per rimpiazzare quelli in via di pensionamento, mentre 72,900 saranno aggiuntivi per affrontare le nuove esigenze. Nel complesso, serviranno 250.600 persone per l’istruzione e i servizi formativi pubblici, 233.900 per la sanità e l’assistenza sociale e 362.000 per i servizi generali e l’assicurazione generale obbligatoria. Il 76,3% (646.000) dovranno avere un’istruzione universitaria, il 4,8% (.41.100) un’istruzione liceale e il 18,8% (159.300) una formazione secondaria di tipo tecnico professionale.

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