La peste suina africana avanza. A due anni e mezzo dal primo caso di cinghiale infetto accertato in provincia di Alessandria, il virus è arrivato in otto regioni e, soprattutto, è entrato prepotentemente negli allevamenti di suini. I danni sono già enormi e la situazione è sul punto di degenerare, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello economico.
Negli ultimi mesi, secondo la nota diffusa da Slow Food Italia, circa cinquantamila maiali sono stati abbattuti in Italia e le loro carni distrutte. Le norme prevedono che si abbattano tutti i capi presenti entro un raggio di tre chilometri dal caso di positività accertato e che gli allevatori colpiti vengano risarciti. Ballano decine di milioni di euro di risorse pubbliche: soldi che però arrivano soprattutto ai grandi allevatori, mentre ai piccoli gli indennizzi arrivano con il contagocce.
La strategia adottata per frenare la diffusione del virus finora non ha prodotto alcun risultato e il commissario Vincenzo Caputo, entrato in carica un anno e mezzo fa, si è dimesso. Nei giorni scorsi, è arrivata anche la bocciatura da parte dei commissari europei giunti in missione in Italia per valutare la situazione.
Sotto il profilo della biosicurezza, non si può sorvolare sul fatto che i casi di peste suina africana si sono verificati negli allevamenti industriali, ovvero in quelli che – sulla carta – dovrebbero essere i luoghi maggiormente al riparo dal contagio, nei quali gli animali vivono rinchiusi, senza possibilità di contatti diretti con i cinghiali. Questa apparente contraddizione si spiega con la movimentazione di mezzi, animali e personale tra un allevamento e l’altro, una circostanza che riguarda soprattutto i grandi allevamenti con migliaia di capi. In altre parole: è l’uomo ad aver portato il virus negli allevamenti. Tenerlo a mente, secondo Slow Food Italia, è fondamentale per evitare di peggiorare la situazione.
Parlare di biosicurezza per frenare la diffusione della peste suina africana è sacrosanto, ma occorre farlo nel modo corretto: intenderla solo come barriere e recinzioni da innalzare per separare i suini domestici dai selvatici è riduttivo e penalizza chi non alleva in maniera industriale. Biosicurezza significa anche rispettare rigorosamente le norme per evitare di trasportare in modo accidentale il virus all’interno dei capannoni.
Occorre tener presente che i grandi allevamenti industriali, di norma, si trovano all’interno dei cosiddetti distretti suinicoli, cioè aree geograficamente ristrette ad altissima densità di capi. In queste realtà, prosegue la nota di Slow Food Italia, le occasioni di contatto tra un allevamento e l’altro sono molto frequenti: si pensi ai camion che riforniscono di mangime i grandi capannoni (negli allevamenti piccoli, invece, spesso i mangimi sono autoprodotti) e a quelli che smaltiscono i liquami per produrre biogas; oppure al personale che si sposta da un allevamento all’altro, compresi i veterinari e le persone che si occupano del carico degli animali verso il macello.
Oppure, ancora, si pensi ai grandi allevamenti da riproduzione, dove si producono i suinetti destinati all’ingrasso in altri allevamenti: un caso positivo in una realtà così strettamente interconnessa a molte altre può avere conseguenze disastrose in aree anche molto distanti l’una dall’altra.
Gli allevamenti su piccola scala, quelli dove gli animali vivono allo stato brado o semibrado, spesso sono invece isolati, lontani gli uni dagli altri, caratterizzati dal cosiddetto ciclo chiuso (cioè con la riproduzione dei suinetti all’interno dell’allevamento), con pochissimi contatti con l’esterno: di conseguenza, le probabilità che il virus venga portato dall’uomo all’interno sono minori. Il rischio che il contagio si verifichi attraverso un contatto con il selvatico c’è, ma un’eventuale positività avrebbe conseguenze decisamente ridotte e sarebbe più facilmente isolabile.
Slow Food Italia, insieme a FederBio, Aiab Liguria, Veterinari Senza Frontiere e Associazione Rurale Italiana, a settembre 2023 ha preso parte alla cabina di regia nazionale per la peste suina africana, su invito del commissario Caputo, con l’obiettivo di rappresentare le istanze degli allevatori di piccola scala. A quel tavolo Slow Food Italia, con le altre associazioni coinvolte in rappresentanza degli allevamenti biologici, bradi e semibradi, ha portato proposte concrete e avanzato diverse richieste, salvo rimanere senza risposta.
Il tavolo, dopo un incontro online a dicembre 2023, non è più stato convocato e non è più stato richiesto il parere di chi rappresenta il settore biologico e l’allevamento estensivo e di piccola scala. Anche le richieste di aggiornamenti e di spiegazioni sono rimaste inevase.
Slow Food Italia rivolge ai ministeri della Salute, Orazio Schillaci, e dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, la domanda sul perché la cabina di regia è naufragata e quale sia la linea che sarà intrapresa per contrastare l’emergenza della peste suina.
Davvero si intende continuare a privilegiare un modello di allevamento industriale che, oltre a vedere negli animali dei meri mezzi di produzione, ha dimostrato la propria vulnerabilità all’avanzata della peste suina africana? Insistere su questa strada non è privo di conseguenze e a farne le spese sono gli allevatori più piccoli: quelli che lavorano in modo estensivo, valorizzando razze suine autoctone – che sono alla base di produzioni storiche della norcineria italiana eppure si trovano a rischio d’estinzione – e salvaguardando il loro prezioso patrimonio genetico. L’alternativa all’allevamento industriale esiste: va difesa, sostenuta e promossa.
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