Bevande dealcolate non chiamiamole vino

Settore in potenziale forte crescita con un milione di consumatori, ma con produzione italiana al palo per via delle regole burocratiche.

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Bevande dealcolate

Cresce nel mondo la richiesta di vini a bassa gradazione alcolica o totalmente privi, bevande dealcolate che con il vino hanno solo una origine comune, ma che costituiscono prodotti profondamente differenti.

Alle bevande dealcolate si stanno rivolgendo una folta schiera di consumatori, che annovera sportivi, donne incinte, autisti professionisti, consumatori di altri credo religiosi o con particolari regimi alimentari, interessati a prodotti italiani, ma che sono difficili da offrire per via di un assetto normativo che ne limita fortemente la realizzazione sul territorio nazionale, tanto che chi decide di investire nel settore affida la produzione ad aziende estere.

La tendenza verso il “NoLo” o bereNo o Low Alcohl” è una tendenza di mercato che negli Usa vale già un miliardo di dollari, stima Unione italiana Vini (Uiv), mentre in Italia il 36% dei consumatori sarebbe interessato a consumare bevande dealcolate. In questa partita l’Italia «gioca un ruolo residuale, – lamenta il segretario generale di Uiv, Paolo Castelletti – perché non è ancora possibile elaborare il prodotto negli stabilimenti vitivinicoli e non sono state fornite indicazioni sul regime fiscale. Il prodotto può circolare anche in Italia, come in tutta l’Ue, ma i produttori italiani non possono produrlo».

In Italia, per Federvini, la produzione di vini dealcolati o parzialmente dealcolati incontra non poche complessità per via di alcuni colli di bottiglia normativi, sebbene il quadro legislativo comunitario lo renda possibile nel rispetto di pratiche enologiche autorizzate (distillazione, osmosi inversa, membrane) e di alcuni obblighi in materia di etichettatura.

Secondo il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, «sul vino tradizionale l’Italia è una eccellenza. Il vino da cinquemila anni è frutto della natura e del lavoro dell’uomo con un percorso che pone l’alcol, in quantità che va dal 4 al 20%, come stabilizzatore di questa produzione. Dopodiché non è necessario chiamare vino una cosa che è fatta diversamente. Ma questo è un parere personale».

«Da un punto di vista politico – ha annunciato Lollobrigida – ci confronteremo con la scienza e col mondo produttivo e troveremo la migliore soluzione per non perdere quello che abbiamo in nome di quello non abbiamo. Questo per dire che non serve usare la stessa parola per individuare due prodotti differenti. Dico quindi che il dealcolato ha un possibile spazio importante di mercato, ma non c’è bisogno di chiamarlo vino».

Da parte delle aziende c’è una spinta a non perdere il treno delle bevande dealcolate, lasciando campo libero alla concorrenza estera. Sul fronte europeo, rende noto Federvini, anche la Germania vede crescere il gradimento dei vini no alcohol” con un +6% a volumi e +17% a valori rispetto al 2022. Il mercato tedesco apprezza in particolare lo spumante dealcolato con quasi 60 milioni di euro di vendite. Sulla stessa linea anche il Regno Unito con un +6% a volumi dei vini senza alcol nel 2023 rispetto al 2021. E negli Usa nel 2024 si assiste ad una crescita sensibile dei vini dealcolati rispetto a due anni fa (+16% a volumi e +52% a valori).

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