“L’illusione della luce” e “Irving Penn Resonance”

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irving-penn-ilnordestDue mostre a Palazzo Grassi a Venezia visitabili fino a fine anno
di Giovanni Greto

Cattura l’attenzione del visitatore inducendolo a riflettere il nuovo allestimento di Palazzo Grassi, acquistato nel 2005 da François Pinault (1936), uno tra i più grandi collezionisti di arte contemporanea del mondo. La mostra, aperta tutti i giorni tranne il martedì fino al 31 dicembre, si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici, legati ad una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce, che almeno fin dal Rinascimento costituisce anche una dimensione fondamentale dell’arte.

“L’illusione della luce”, intesa come chiarore, oppure abbagliante, oppure rivelatrice oltre il visibile, mette in scena, attraverso le opere di 20 artisti dagli anni ’60 ad oggi, la profonda ambivalenza della luce, la sua straordinaria ricchezza di significati e di valori. Il visitatore è invitato a compiere un percorso di scoperta, addentrandosi nella moltitudine di sinonimi del verbo illuminare : da accendere a brillare, da decifrare a svelare, da educare ad arricchire, da informare ad irradiare, da risplendere a destare.

La mostra accoglie lo spettatore nell’atrio a piano terra con “D-N SF 12 VI(2012)”, dell’americano Doug Wheeler (1939). Si tratta di un campo luminoso bianco, ipnotico e inconsistente, che genera disorientamento, accresce la consapevolezza della corporeità e dei suoi limiti in chi guarda, cancellando i riferimenti percettivi. Proseguendo per la scalinata che porta al mezzanino, alzando lo sguardo, si può ammirare “Marquee”, dell’algerino Philippe Parreno (1964). L’opera è parte di una serie iniziata nel 2006, nella quale l’artista indaga lo spazio e sperimenta il potere della luce. Si arriva così al primo piano, che contiene le rimanenti 17 opere, accolti dall’installazione “Escalator (Rainbow Rain)”, della francese Vidya Gastaldon (1974). E’ un percorso arcobaleno fatto di fili di lana, stoffa e piccoli elementi di plastica. Ispirato in gran parte al culto della divinità Hindu e all’utilizzo, in tutte le occasioni religiose della comunità, delle ghirlande di fiori intrecciate (Mala), questo riferimento si combina a esperienze proprie della cultura europea. L’artista pensa infatti al romanzo “Il mago di Oz”, nel quale la protagonista Dorothy esprime il desiderio di andare oltre l’arcobaleno. Tra tanti lavori, merita una descrizione “Le salon noire” del belga Marcel Brodthaers (1924-1976). L’esposizione-opera, presentata a Kassel in occasione di “Documenta 5”, è un omaggio all’amico poeta belga Marcel Lecomte. Colpisce in posizione verticale il feretro del defunto che prende parte alla veglia, mentre il volto appare scomposto in negativo e in positivo sui recipienti accanto. L’artista decide in tal modo di trattare gli oggetti come fossero parole, situandoli nello spazio compreso tra il dicibile e il visibile. La grande sala del piano nobile è coinvolta e sconvolta da una grande installazione di Danh Vo, “Autoerotic Asphyxiation”. Nato a Saigon nel 1975, ma fuggito a 4 anni in Danimarca assieme alla famiglia, l’artista raccoglie in uno stesso spazio le fotografie di giovani vietnamiti scattate negli anni ’60 da un militare americano e la riproduzione eseguita dal proprio padre di una lettera scritta nell’800 al padre da un missionario francese condannato a morte in Vietnam, riflettendo sul concetto di colonialismo, con una particolare attenzione all’aspetto religioso. Nella sala, bianchi tendaggi mettono in dubbio la chiarezza delle immagini, creando un conflitto tra ciò che è indiscutibilmente evidente e ciò che non si vuole recepire. Spettacolare, quanto inquietante, il film “Crossroads” dello statunitense Bruce Conner (1993-2008). Appropriatosi delle riprese dei test atomici effettuati dal governo americano nel 1948, durante il primo esperimento nucleare nell’atollo Bikini, il film genera una meditazione lirica sulla bomba atomica. Il fungo nucleare, immerso nella potenza distruttiva, diventa una forza cosmica universale alta 13 chilometri, registrata a distanza da 500 telecamere. Immerso in una sorta di contemplazione, lo spettatore è portato a riflettere sulla coscienza della storia.

Il secondo piano del palazzo è occupato dalla mostra “Irving Penn, Resonance”, la prima grande esposizione dedicata in Italia al fotografo americano Irving Penn (1917-2009). “Resonance” riunisce, dalla fine degli anni ’40 fino alla metà degli ’80, 82 stampe al platino-palladio – una soluzione meccanica applicata manualmente sulla carta fotografica, abbandonata con l’avvento del modernismo – 29 stampe ai sali d’argento, 5 stampe “dye-transfer” a colori e 17 internegativi mai esposti prima d’ora. Ripercorre i grandi temi cari a Penn che, al di là della diversità dei soggetti, hanno in comune la capacità di cogliere l’effimero in tutte le sue sfaccettature. Tra le 15 sale, in cui si sviluppa la mostra, trova spazio una selezione di fotografie della serie dei “piccoli mestieri”, realizzate a Parigi, Londra e New York nel 1950 e 1951.

Penn, convinto che quelle attività fossero destinate a scomparire, immortalò nel suo studio venditori ambulanti di giornali, straccivendoli, spazzacamini, pasticceri, pompieri, tutti in abiti da lavoro. Fotografie etnografiche scattate in Africa nel Dahomey (1967), Camerun (1969), Marocco (1971) e nelle tribù della Nuova Guinea (1970), accostate a ritratti di “gente famosa” come Picasso, Truman Capote, Marlene Dietrich, Marcel Duchamp, Cecil Beaton, Jean Cocteau, Woody Allen, Colette, Tennessee Williams, sottolineano con forza la labilità dell’esistenza degli esseri umani, siano essi ricchi o indigenti, celebri o sconosciuti. Elegantissime le due foto “The hand of Miles Davis”, che riescono ad esprimere, forse anche meglio del volto, il carisma del grande jazzista. Di estremo interesse la sala n. 13, nella quale trovano posto 21 teschi di animali fotografati nel 1986 al museo di storia naturale di Praga per la serie “ Cranium Architecture”. E ancora, tre nudi newyorkesi, datati 1949-50, composizioni di mozziconi di sigarette (1972), ceste di frutta inserite nella sezione “Still Life” (natura morta), come “Still Life with Watermelon” (1947). Un ampio panorama è dunque visibile, offrendo una chiara testimonianza della capacità di sintesi che caratterizza il lavoro del fotografo. Nella sua visione, il controllo assoluto di ogni fase della fotografia, dallo scatto alla stampa, alla quale dedica un’importanza e un’attenzione senza pari, permette di andare molto vicino alla verità delle cose e degli esseri viventi, in un continuo interrogarsi sul significato del tempo e su quello della vita e della sua fragilità.