Da gennaio 2023 lo “spread”, ovvero il differenziale tra i tassi di interesse dei titoli del debito pubblico tedesco e italiano, non si assestava per un’intera giornata sopra i 200 punti base, toccando anche quota 204, con il rendimento del decennale italiano salito al 4,9%, dopo un picco del 5% sui livelli del 2012, facendo scattare l’allarme debito pubblico.
Lo scenario sicuramente allarmante però «non preoccupa» il premier Giorgia Meloni: «l’economia italiana è solida e credo che il governo stia spendendo le risorse in modo serio, facendo leva sulla crescita economica, e che ciò sia compreso da tutti», che aveva già minimizzato le fibrillazioni sui mercati.
In attesa della portata (e delle articolazioni) della manovra e della revisione dei “rating” di Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s fra fine ottobre e metà novembre sull’affidabilità dei titoli italiani che sono a solo uno o due gradini sopra il livello di “spazzatura”, tra i più bassi dell’Euroarea, dalla Germania è arrivato il giudizio degli analisti di Scope che getta dubbi sull’equilibrio della finanza pubblica nazionale e rinfocola l’allarme debito pubblico. «Deficit di bilancio più alti potrebbero indebolire il profilo di credito” del Paese – annotano gli analisti di Scope -. Le revisioni al ribasso di crescita e prospettive di bilancio confermano la preoccupazione che l’Italia abbia un percorso ristretto per consolidare le finanze pubbliche».
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Le strettoie finanziarie impongono anche una revisione al ribasso della spesa pubblica nei ministeri, che però viaggia in ritardo rispetto al traguardo del 10 settembre fissato dalla premier in estate. Da Palazzo Chigi è arrivato una nuova sollecitazione ad operare in tal senso, e a breve anche delle linee guida emanate da Meloni «per dare avvio celermente a questo percorso» che potrebbe essere avviato anche senza sprecare i 75 milioni che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha ricordato essere stata stanziata nell’ultimalegge di bilancio per assumere esperti per studiare gli interventi di taglio, quando basterebbe scorrere i numerosi studi in tema che giacciono intonsi ed impolverati nei cassetti ministeriali.
Gli obiettivi di revisione della spesa pubblica che viaggia già oltre la quota di 1.000 miliardi di euro (1.087 miliardi per il 2023 con una previsione di arrivare a 1.123 miliardi nel 2026) sono fissati dal Def ad aprile, e specificati da un Dpcm ad agosto. Dal 2024 al 2026 il traguardo era di un miliardo e mezzo di risparmi.
Gran parte in carico al Mef (647 milioni), al ministero del Made in Italy (199), a quello della Difesa (193) e a quello delle Infrastrutture (135). Una decina di giorni fa, al momento del varo della Nadef, Meloni e Giancarlo Giorgetti hanno richiamato la squadra di governo: o tagliano i ministri, oppure ci penserà il titolaredell’Economia, che intanto ha alzato l’obiettivo dei risparmi, portando quello del 2024 dai miseri 300 milioni ad appena 2 miliardi.
Meloni ha già chiarito che per ridimensionare l’allarme debito pubblico l’imperativo è evitare gli sprechi. La revisione di interventi, servizi erogati, procedure amministrative e assetti organizzativi non deve avvenire con sforbiciate lineari, ma in base alle priorità politiche. Di certo, non si possono tagliare gli interventi legati al Pnrr (martedì è in programma una nuova cabina di regia convocata da Raffaele Fitto con altri nove ministri e gli enti locali), quelli di ricostruzione post-calamità e quelli di Transizione 4.0.
Ma si può e si deve mettere mano al patrimonio dello Stato inutilizzato o sottoimpiegato per metterlo a reddito. Qualche anno fa, si era proposto di inserire i beni immobili dello Stato in un fondo immobiliare e quotarne sul mercato il 49% per ricavare un gettito di qualche centinaio di miliardi utile a sforbiciare il moloch del debito pubblico da 1.856 miliardi di euro, cresciuto di ben 88 miliardi di euro dal settembre 2022 al settembre 2023. Ma si potrebbe fare anche di più valorizzando le quote delle aziende pubbliche allo stesso modo, senza per questo fare quelle privatizzazioni dell’epoca dei governi di centro sinistra che si sono rivelate fallimentari se non dei boomerang, come il recente riacquisto di Autostrade o della rete Telecom. Ma si potrebbe agire da subito anche sui canoni delle concessioni demaniali, a partire da quelle balneari che generano per il bilancio dello Stato solo una manciata di milioni a fronte di miliardi di fatturato per i concessionari.
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