Inps: le regole di pensionamento penalizzano operai, perché vivono di meno

Inps, differenza del 36% degli importi tra uomini e donne. Confesercenti: l’Italia è sempre meno un paese per lavoratori autonomi.

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inps Italia tra 20 anni Inps

Secondo l’Inps in Italia ci sono circa 16,1 milioni di pensionati per quasi 322 miliardi di spesa per 20,8 milioni di prestazioni (perché alcuni pensionati fruiscono di due trattamenti), con un divario marcato negli importi pensionistici tra uomini e donne.

L’Inps fotografa la situazione della previdenza nel 2022 avvertendo come le regole attuali sull’accesso al pensionamento con il calcolo della pensione uguale per tutti penalizzano le classi meno abbienti perché hanno una speranza di vita più bassa e favoriscono quelle con i redditi più alti.

Nel XXII Rapporto annuale presentato dal commissario dell’Ente previdenziale, Micaela Gelera, si sottolinea che la speranza di vita a 67 anni per gli operai è di quasi cinque anni inferiore a quella dei dirigenti (16 contro 20,9) e che il coefficiente di trasformazione uguale per tutti consegna una pensione ai meno abbienti più bassa di quella che avrebbero avuto considerando la loro reale aspettativa di vita. «Viceversa – si legge nel Rapporto – i più abbienti ottengono pensioni più elevate di quelle che risulterebbero da tassi che tengono conto della effettiva durata media della loro vita».

Il Rapporto Inps segnala che gli uomini, pur essendo circa il 48% dei pensionati, concentrano il 56% della spbesa, ovvero 180,4 miliardi contro i 141,5 erogati alle donne. Per gli uomini l’importo annuale medio del reddito da pensione è di circa 23.182 euro, per il 36% circa superiore a quello delle donne (16.994). Le donne riscuotono circa 515 euro al mese in meno degli uomini (considerando l’importo diviso per 12 mesi), ovvero circa il 26,67% in meno. Il dato è legato al fatto che le donne hanno carriere contributive più corte e spesso assenti. Anche per questo le donne vanno ormai in pensione a un’età media più alta di quella degli uomini che utilizzano invece largamente il canale dell’uscita anticipata.

L’Inps fa i conti anche sulle uscite con le varie Qbuote, rilevando che con la salviniana “Quota 100“sono già andate in pensione 433.000 persone, circa 380.000 tra il 2019 e il 2021, gli altri dopo avendo raggiunto però i requisiti in quella finestra temporale. Molto meno consistenti sono le uscite con “Quota 102” con 5.700 uscitenel 2022 e altre 4.874 nei primi cinque mesi del 2023 e “Quota 103” (5.125 domande tra gennaio e maggio). Nel 2022 il ricorso a “Opzione donna” ha raggiunto 26.000 unità.

L’Inps fa i conti anche sui risultati del cuneo contributivo: con il taglio previsto da luglio 2023 del 7% per i lavoratori con un imponibile pensionistico fino a 25.000 euro su base annua e del 6% per i lavoratori con un imponibile pensionistico fino 35.000 euro la retribuzione media stimata a ottobre 2023 dovrebbe aumentare di 98 euro lordi. Circa il 57% dei lavoratori beneficerebbe di importi superiori ai 100 euro mensili mentre solo il 2% dei beneficiari riceverebbe meno di 80 euro.

L’Inps affronta anche la questione inflazione e quella dei lavoratori con basse retribuzioni. Secondo l’Istituto, le famiglie nel quinto di reddito più basso hanno sperimentato tra il 2018 e il 2022 un aumento dei prezzi nel loro paniere di riferimento del 15%, circa cinque punti in più di quanto sperimentato dall’ultimo quinto, quello con il reddito più alto. Ma sono riuscite ad aumentare il loro reddito reale aumentando l’offerta di lavoro.

L’inflazione invece ha falcidiato i redditi dei pensionati non potendo questi agire sull’offerta di lavoro. I primi due quintili di reddito delle famiglie di pensionati hanno perso tra il 2018 e il 2022 il 10,6% del reddito reale. E l’aumento dell’intensità di lavoro sembra la risposta al lavoro povero. I lavoratori poveri, scrive l’Istituto, «risultano particolarmente addensati tra i dipendenti a tempo parziale (oltre mezzo milione su 871.800)». I lavoratori poveri a tempo pieno per ragioni salariali – scrive l’Inps – sono 20.300 (0,2% sul totale della platea dipendenti).

Il XXII Rapporto Inps segnala anche un’altra verità, evidenziata da Confesercenti: l’Italia non è più un paese per lavoratori autonomi, «crollati di 134.000 unità dal 2019, un segnale preoccupante. Non è più un paese per piccole imprese, l’Italia della ditta è in difficoltà tra pandemia e caro-vita, con negozi e botteghe familiari a rischio. Calano i commercianti (-78.000) e artigiani (-70.000)».

Dal 2019 al 2022, segnala il rapporto annuale Inps, i lavoratori indipendenti assicurati dall’Istituto passano dai 4,959 milioni del 2019 ai 4,825 milioni del 2022, con un calo netto di 134.000 unità in quattro anni, oltre 90 al giorno. Un dato che purtroppo conferma le crescenti difficoltà a rimanere sul mercato delle micro e piccole imprese a conduzione familiare, che hanno visto sfumare la ripresa post pandemica a causa del caro-vita e dell’incremento dei prezzi energetici.

Tra le cause del calo, spiega Confesercenti, «oltre ai fenomeni di consolidamento segnalati dall’Inps c’è certamente la difficoltà dell’Italia della “ditta”, quell’Italia di commercianti, artigiani e professionisti che hanno caratterizzato il sistema economico nazionale. Un calo che l’aumento di altre tipologie di lavoratori indipendenti non riesce a compensare. Micro e piccole imprese – vere e proprie famiglie produttive – che non spariscono per mancanza di competitività, ma per il doppio colpo di pandemia e caro-vita. E che si trovano a fare i conti con un sistema Paese dove è sempre più difficile tentare l’avventura imprenditoriale».

Per Confesercenti, di fronte a questo scenario, «servono meno oneri burocratici e più sostegni per questa parte importante del nostro sistema economico: tra le ipotesi sul tavolo del Governo, c’è quella di una revisione delle modalità di pagamento delle imposte. In particolare, l’idea di introdurre per il futuro una sorta di “abbonamento fiscale”, superando il meccanismo saldo-acconti con una rateizzazione mensile di quanto dovuto ed un conguaglio finale, ci sembra – spiega Confesercenti – una proposta seria e praticabile che il Governo dovrebbe prendere in considerazione. Necessario anche pensare a un alleggerimento degli oneri previdenziali e fiscali per le nuove attività imprenditoriali, per un periodo non inferiore a tre anni dall’avvio. Ma si deve mettere in campo anche una fiscalità di vantaggio per i negozi di vicinato con un fatturato inferiore ai 400.000 euro l’anno: un provvedimento essenziale per contrastare il fenomeno della desertificazione commerciale che sta interessando sempre più grandi e piccoli centri urbani italiani, con un grave impatto non solo sul settore ma anche sull’offerta di servizi ai cittadini».

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