Sanità italiana in affanno per il calo della spesa pubblica

Indagine dell’Osservatorio Salute, legalità e previdenza Eurispes-Enpam.

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sanità italiana tagli alla sanita ed e rivolta delle regioni

Torna a scendere la quota di PIL destinata alla sanità italiana, nonostante la pandemia avesse lasciato sperare in un cambio di passo. È quanto emerge dalla ricerca “Il Termometro della Salute”, promossa dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam.

Per il presidente dell’Enpam (l’ente di previdenza dei medici), Alberto Oliveti, la «situazione del SSN abbastanza critica. Veniamo dal Covid e abbiamo evidenti difetti di programmazione», mentre permane un «evidente gap» per quanto riguarda la qualità del capitale umano e dell’organizzazione in relazione alla soddisfazione dell’utenza.

Da parte sua, il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, ha espresso perplessità sulla capacità dell’intelligenzaartificiale di sostituire il professionista sanitario: «l’intelligenza artificiale non scalzerà le persone. Qualcuno l’ha pur prodotta».

Alberto Baldazzi, coordinatore del rapporto sulla sanità italiana, ne ha esposto il contenuto, segnalando l’eccessiva compartimentazione del SSN: «la mancanza di capitale umano nel sanitario, figlia di una mancata programmazione, è irrisolvibile. Anche mettendo risorse da subito avremmo difficoltà a formare i 30.000 che si denuncia come carenza». Tuttavia, Baldazzi ha segnalato una nota di speranza: grazie alla pandemia c’è un’attenzione, anche e soprattutto mediatica, che potrebbe stimolare la politica ad agire.

Carlo Ricozzi, presidente dell’Osservatorio Eurispes-Enpam su Salute, Legalità e Previdenza, ha posto la questione della formazione: «nel tempo si è creato un collo di bottiglia tra università e mondo del lavoro, almeno nel settore sanitario. Non abbiamo medici giovani, tra 5 anni molti andranno in pensione e il problema sostanzialmente si pone».

Anche Silvestro Scotti, segretario generale Fimmg (Federazione Italiana Medici Medicina Generale), ha lanciatol’allarme sulla carenza di personale sanitario: «nei prossimi sei anni ci sarà una carenza di 7.000 medici di famiglia».

Segnalato anche il mancato rilancio del SSN alla luce della pandemia da covid: «dal momento dello scoppio della pandemia a quando si è attenuata, provvedimenti di riforma del SSN non ci sono stati, almeno quelli che ci saremmo aspettati. Purtroppo, la crisi del SSN perdura – ha affermato Francesco Cognetti, presidente della Confederazione Oncologi, Cardiologi, Ematologi (Foce) -. Non è un problema soltanto la crisi della medicina territoriale. Va fatta una riflessione generale sul SSN. Il Covid ha evidenziato alcune carenze che noi conosciamo, se non altro in termini di numeri – ha continuato Cognetti -. Certo il PNRR è stato una grande opportunità ma è stato disegnato senza ascoltare minimamente la nostra componente».

Per gli operatori nella sanità italiana pubblica, il blocco del turnover nelle regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni hanno comportato la diminuzione del personale a tempo indeterminato in servizio nella sanità italiana. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008). Tra il 2012 e il 2017, il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le aziende ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653.000 a 626.000 unità, pari ad una flessione di poco meno di 27.000 unità (-4%).

Nello stesso periodo, il ricorso a personale con un profilo di impiego flessibile è cresciuto di 11.500 unità, riuscendo solo in parte a compensare questo calo. I tassi medi annui di turnover sono molto diversi tra le regioni del Nord e quelle del Centro-Sud. Toscana, Emilia Romagna e Veneto anche negli anni duri della revisione della spesa sono state in grado di sostituire integralmente il personale andato in quiescenza e addirittura ad aumentarlo. La Lombardia ha sostanzialmente mantenuto gli organici. Il Piemonte li ha leggermente diminuiti. Tutte le altre regioni sono accomunate dal fatto di essere ancora sotto piano di rientro e di aver presentato un tasso medio di turn-over, tra il 2012 e il 2017, inferiore al 70%.

Dal 2022 al 2027 il Sistema Sanitario Nazionale perderà ogni anno una media di 5.866 medici dipendenti, e una media di 2.373 medici di medicina generale. Per l’intero quinquennio vanno calcolate le uscite di 29.331 medici dipendenti, e di 11.865 medici di base. Rispetto agli attuali organici, per entrambi i comparti si tratta di perdite di poco inferiori al 30%.

Anche i 21.050 infermieri più anziani della sanità italiana pubblica sono destinati a lasciare vuoto il loro posto di lavoro nel prossimo quinquennio “per raggiunti limiti di età”. Si consideri inoltre che in molti casi si tratta di un lavoro usurante e che non è da escludere che si producano molti prepensionamenti che aggreverebbero la perdita di quasi il 10% degli addetti.

Inoltre, i dati sulla remunerazione di medici specialisti e infermieri ospedalieri in rapporto al Pil pro capite indicano che il medico italiano ha un reddito pari a 2,4 volte quello medio del Paese, mentre in Gran Bretagna il rapporto sale a 3,6, in Germania a 3,4, in Spagna a 3,0, in Belgio a 2,8.

Gli italiani spendono “di tasca propria” in salute per prestazioni e farmaci in tutto o in parte (pagamento di un ticket) non coperti dal SSN annualmente quasi 40 miliardi di euro, raggiungendo una quota del Pil superiore al 2%. A ciò si aggiunga l’intensificarsi della “mobilità sanitaria”, generato dalla necessità di rivolgersi a strutture pubbliche di altre regioni per ottenere prestazioni del SSN di fatto non erogabili nel territorio di residenza a causa dei deficit strutturali della sanità regionale di appartenenza.

I sistemi sanitari di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono da considerare tra i migliori in Italia e nell’intera Unione europea. Questi sono stati presi da modello nel Rapporto per individuarne le differenze, anche strutturali, che li hanno spinti ad adottare strategie diverse che hanno manifestato una diversa efficacia nel contenimento della diffusione dei contagi nel corso della pandemia.

Le regioni con un saldo attivo sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, e quelle che invece depauperano il loro budget sanitario sono quasi tutte le rimanenti regioni centro-meridionali. Inoltre, gli importi versati dalle regioni che “cedono” pazienti a quelle in grado di erogare le prestazioni, determinano una ulteriore difficoltà in budget sanitari già compressi dai piani di rientro.

All’opposto, le regioni che erogano molte prestazioni a cittadini non residenti possono contare su di un “over-budget” che rende possibili investimenti in strutture e personale, di cui beneficiano in primo luogo i cittadini residenti. In termini di efficienza, la “forbice” tra alcune regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, inevitabilmente si allarga. Ai due estremi, nel 2018, la Lombardia ha riscontrato un saldo positivo di quasi 809 milioni di euro, mentre la Calabria un deficit di quasi 320 milioni di euro e la Campania di più di 302 milioni. Anche da ciò derivano impatti quali quello del mancato turnover del personale medico e infermieristico.

Oltre all’appesantimento dei conti economici delle singole sanità regionali, la “mobilità sanitaria” fa emergere la gravità del fenomeno rappresentato da quasi 1,5 milioni di cittadini che nel 2018 per curarsi hanno dovuto rivolgersi al di fuori della regione di residenza. Le serie storiche delle indagini campionarie dell’Eurispes evidenziano un trend da cui emerge che un quarto delle famiglie italiane denuncia difficoltà economiche relativamente alle prestazioni sanitarie. Relativamente al 2022 questa difficoltà si conferma maggiore soprattuttoper i cittadini delle regioni meridionali (28,5%) e delle Isole (30,5%). Inoltre, un terzo dei cittadini (33,3%) afferma di aver dovuto rinunciare a prestazioni e/o interventi sanitari per indisponibilità delle strutture sanitarie. I dati del 2023 confermano questo andamento e lo indicano in aumento.

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