Le politiche europee del “Green Deal” stanno scassando dalle fondamenta una delle gambe su cui si regge l’economia europea per importanza sul Pil, la ricerca ed innovazione e l’occupazione, il settore automotive europeo, con la Germania che è sotto shock dopo l’annuncio del gruppo Volkswagen che, per la prima volta nella sua storia di 87 anni, ha detto di dovere procedere alla chiusura di almeno due fabbriche in Germania ad Osnabruck e a Dresda (oltre allo stabilimento Audi in Belgio) con il licenziamento di 70-80.000 dipendenti, che sono già in mobilitazione, per ridurre i costi operativi di almeno 10 miliardi di euro e ridurre la produzione di 500.000 auto all’anno.
E, ciliegina sulla torta, dopo 9 anni dalla scoperta nel settembre 2015 dello scandalo delle emissioni truccate del “Dieselgate” da parte dell’Epa americana (gli organismi di tutela dell’ambiente europeo se c’erano dormivano, non vedevano e non sentivano) parte il processo agli allora vertici di Volkswagen, come il presidente Martin Winterkorn, che alla casa automobilistica è già costato 30 miliardi tra multe irrogate negli Usa e in Europa, oltre ai costi per il ripristino dei veicoli interessati, danni ai consumatori e al danno reputazionale.
Volkswagen non è la sola protagonista dell’automotive europeo in crisi per la transizione elettrica della mobilità: dal gruppo Bmw attiva la notizia del megarichiamo di Mini elettriche per il rischio di surriscaldamento alle batterie che potrebbero innescare fenomeni di incendio anche a vettura spenta. Il richiamo interessa nel mondo 140.000 veicoli.
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La crisi interessa anche l’Italia, dove il gruppo francoitaliano Stellantis sta progressivamente tagliando la capacità produttiva degli ex stabilimenti Fiat, che nelle logiche dello strapagato (ben 35 milioni di euro nel 2023) manager Carlos Tavares sarebbero anticompetitivi rispetto a quelli dell’Europa dell’Est o del Nord Africa. E ad essere decisamente preoccupati per il loro futuro, oltre alle maestranze in continua cassa integrazione con stipendi falcidiati, c’è anche la filiera nazionale dei componentisti, che devono fronteggiare la crisi italiana e dei produttori tedeschi.
Ad andare male sono le vendite su tutti i mercati europei, che ad agosto hanno virato tutte in negativo, complice uno scenario incerto sul futuro della mobilità e, soprattutto, il caro automobile nuova, che negli ultimi due anni ha visto i listini lievitare mediamente del 30% con la scomparsa generalizzata di tutte le utilitarie a basso prezzo. E complice un caro denaro per gli acquisti con i finanziamenti, ovvio che i consumatori latitano, anche in presenza di incentivi pubblici all’acquisto, tanto che in Italia è ancora inutilizzato il 67,9% dello stanziamento per gli incentivi all’acquisto di auto con emissioni di CO2 da 21 a 60 grammi al chilometro (i modelli ibridi e ricaricabili) e soprattutto che resta ancora inutilizzato il 32,3% dello stanziamento per le auto a combustione interna (cioè per le auto tradizionali) con emissioni di CO2 da 61 a 135 grammi al chilometro, stanziamento che in precedenti campagne veniva bruciato in pochi giorni.
Questa è indubbiamente la prova più chiara e lampante della crisi del mercato dell’auto, che sembra destinato a ristagnare (in Italia, ma anche nel resto dell’Unione Europea) su livelli mediamente inferiori di almeno il 20% rispetto allo standard 2019.
Per rilanciare il mercato automotive europeo, oltre alla cancellazione dell’obbligo di elettrificazione del settore al 2035, serve anche una diversa politica fiscale, specie in Italia che ha sempre visto l’automobile come un limone da spremere. In Europa, l’auto aziendale è protagonista di oltre il 60% delle nuove immatricolazioni, mentre in Italia viaggia a poco più del 40%, per via di un trattamento fiscale inadeguato, tanto che è tornato in auge il sistema del rimborso chilometrico. Così come hanno ribadito i concessionari italiani, dare incentivi ai consumatori privati serve poco o nulla per rilanciare stabilmente il mercato auto italiano, mentre sarebbe più utile puntare sulle vendite aziendali, sempre che il sistema fiscale italiano sia adeguato ai livelli europei dopo trent’anni di deroghe all’Italia.
Con una piena deducibilità fiscale del costo d’acquisto, dell’Iva e dei costi di gestione le vendite potrebbero rilanciarsi di almeno 400.000 pezzi nuovi all’anno, con possibilità di ulteriore crescita specie se si agevola anche la norma sul “fringe benefit” per i dipendenti che si vedono assegnata l’auto aziendale. Sarebbe una quadratura del cerchio con vantaggi per tutti, Stato compreso. Ma il governo Meloni ed il ministro all’Industria, Adolfo Urso, pare intenzionato a proseguire anche nel 2025 sulla strada degli incentivi agli acquisti dei privati, che non porta a risultati strutturali.
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