Rivoluzione verde, digitalizzazione, sempre più regole, burocratizzazione dei controlli di sistema che poco o niente hanno in comune con le caratteristiche produttive e distributive del sistema moda e del tessile italiano: questi argomenti rappresentano, per la concorrenza straniera, scappatoie ed escamotage per produrre in copia centinaia di migliaia di pezzi, le il prodotto delle ricerche qualitative ed estetiche, “amichevolmente” ecologiche in anteprima sulle nostre piccole collezioni.
Si tratta di un regalo ingiusto a quei paesi che copiano il “Made in Italy”, come Cina, India, Indonesia e Vietnam, con i quali si fa fatica a condividere valori come l’equità sociale, la giusta remunerazione del lavoro. È quanto si sottolinea in un documento di Unimpresa secondo cui la transizione verde è ormai uno strumento nelle mani delle multinazionali, mentre per le microproduzioni è diventata un maglio dai costi insostenibili.
Per tutelare le produzioni italiane nel mercato internazionale, afferma Unimpresa, occorre attuare politiche più attente nei confronti dei paesi più aggressivi Cina, India e Turchia. Inoltre è necessario adempiere agli impegni di sostegno alle economie emergenti e a noi complementari. L’Italia deve chiedersi se riuscirà ad imporre un cambio culturale alle “nazioni colosso” che vantano storie millenarie solo perché in Italia i concetti dei diritti d’autore, dei brevetti e della contraffazione sono diventati, da qualche anno, uno strumento di protezione per la produzione nazionale.
Le aziende del sistema moda e tessile fanno fatica a ripagare i prestiti post Covid e sono in una situazione di grande difficoltà e instabilità finanziaria, poiché è venuta a mancare la liquidità per pagare i debiti. Gli strumenti finanziari d’emergenza proposti dal governo non sono riusciti ad alleviare i debiti, maturati durante la pandemia. Ragion per cui, la catena produttiva soffre, si rovinano le relazioni imprenditoriali costruite in decenni. Tutto ciò con impatto negativo su chi lavora e sull’occupazione in generale, tant’è che in numerosi distretti tessili si ricorre ancora alla cassa di integrazione nelle sue varie forme.
«Facciamo i conti: cosa è rimasto, in Italia, dopo i raid dei miliardari francesi? Gli esecutori e un esercito di commercianti conto terzi prestati alla finanziarizzazione. A Milano i creativi non arrivano più soprattutto quelli giovani, in Puglia lavorano per i miliardari della moda francesi come Arnaud. Questi imprenditori cosa ricevono dalle istituzioni? Come si potrebbe alleviare le loro difficoltà? A queste domande non ci sono risposte – afferma la presidente di Unimpresa Moda, Margherita de Cles -, ma in generale c’è una strana fiducia nell’aumento dei controlli di ulteriori regole da commercialisti di cui non si capisce l’utilità e si percepisce, invece, l’inefficacia. Al ministro Urso, assieme ad altri rappresentanti del settore, ho chiesto di prestare attenzione al riconoscimento e al salvataggio delle valenze specifiche del nostro mondo, gli artigiani, l’inserimento nei giovani, creativi».
Amare le conclusioni di De Cles sul sistema moda italiano: «visto che il mercato è riuscito a piegare indifferentemente lo stato sociale, le politiche del lavoro, i regolamenti europei, la green economy, la globalizzazione e finanche la grande finanza, non sarebbe il caso di cambiare rotta? Non andrebbe alleggerito di quegli orpelli che portano a continui adempimenti che rubano a un artigiano più di 30 giorni all’anno per essere portati con certezza della loro effettiva efficacia tutto il settore della creatività e del “Made in Italy”? Il “Made in Italy” merita una semplificazione che lasci libera di produrre la parte migliore della nostra struttura imprenditoriale, promuovere e realizzare con il minimo della perdita di energia. Il ministero delle Imprese potrebbe così concentrarsi sulla valorizzazione ideale e la promozione delle piccole e grandi eccellenze che nasceranno e si svilupperanno da questo processo di svincolo e liberalizzazione».
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