Lavoratori a rischio disoccupazione in crescita secondo la Cgil

Oltre 60.000 sono già quelli coinvolti nei tavoli di crisi aperti al ministero delle Imprese e altri 120.000 “ballano” nei settori coinvolti nella riconversione energetica e riconversioni produttive.

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lavoratori a rischio artigiani in estinzione dipendenti Contratti di secondo livello artigiani Inps

Supera quota 60.000 il numero dei lavoratori a rischio coinvolti nei cinquantotto tavoli di crisi d’impresa aperti al ministero delle Imprese e altri 120.000 potrebbero essere presto a rischio nei settori in crisi per la gestione delle transizioni o per riconversioni produttive afferma Pino Gesmundo, il segretario confederale Cgil con delega su politiche industriali e energetiche, infrastrutture e trasporti, aree di crisi. Una situazione decisamente critica, cui s’aggiungono le crisi regionali: solo quelle attive in Veneto e in Pugliaballanoaltri 32.000 lavoratori.

La situazione sui lavoratori a rischio appare decisamente preoccupante, perché «l’anticipazione al 2025 della chiusura delle centrali Enel a carbone di Civitavecchia e Brindisi produce circa tremila esuberi nell’indotto» dice Gesmundo. A fronte di notizie di criticità, arrivano anche quelle positive che riguardano la sottoscrizione degli accordi di rilancio, come quello dello stabilimento Marelli di Crevalcore o di quelli Wartsila e Whirlpool Enea.

Gesmundo apre però una riflessione: «per un tavolo che si chiude, che si risolve dopo 11 mesi, si aprono due nuovi tavoli al Mimit con lavoratori a rischio, come Fbm Hudson e Seri Industrial, convocati negli ultimi due mesi. Siamo contenti di alcune crisi industriali risolte ma – rileva – ogni volta risolvi il problema che era sul tavolo e comunque hai perso dei posti di lavoro. Non essendoci una politica industriale complessiva, non essendoci una visione generale del Paese rispetto alle politiche di sviluppo, agli investimenti e alle risorse, alla fine noi continuiamo ad indietreggiare».

Da qui nasce la spinta dei sindacati per un tavolo di confronto con il governo Meloni e con il premier. «Abbiamo bisogno di affrontare complessivamente il tema della politica industriale». Le soluzioni non sono nelle mani dei singoli ministri: «chiederemo l’attivazione di un tavolo alla presidenza del Consiglio».

Ma su tutto pende la spada di Damocle delle risorse disponibili: dai tavoli ai ministeri non possono arrivare soluzioni «perché se servono risorse ci sono risposte che non può dare il ministro Urso senza sentire il ministro Giorgetti, se parliamo di politiche energetiche non le può fare il ministro Pichetto Fratin senza sentire Urso e Giorgetti», e via così su tutti i fronti aperti evidenzia amareggiato Gesmundo. «È evidente che se discutiamo di politiche della siderurgia, dell’automotive, della moda, della chimica, della farmaceutica, abbiamo bisogno di affrontare complessivamente questi scenari – sottolinea il sindacalista -. La premier Giorgia Meloni deve aprire un tavolo dove affrontare tutti i temi: gli investimenti e quindi le risorse, le infrastrutture, la visione strategica del Paese, il collegamento delle nostre politiche industriali con quelle europee».

E in tema della manovra di bilancio 2025, secondo Gesmundo servono «risorse che per creare le condizioni dello sviluppo, per una efficace politica industriale. Gli altri Paesi stanno investendo, noi rischiamo di rimanere ulteriormente indietro, il nostro sistema industriale rischia di non essere più competitivo e le crisi possono moltiplicarsi. E dobbiamo bloccare l’operazione delle privatizzazioni. Una politica industriale non la fai se continui a vendere pezzi di patrimonio, come pezzi di Ferrovie se poi servono infrastrutture per gli insediamenti produttivi o se privatizzi Poste che raccoglie il risparmio che con Cdp investiamo per politiche industriali, o alla rete di Tim, dove dobbiamo gestire la transizione digitale» dove parallelamente alla vendita si è sottoscritto con gli investitori nella rete, i fondi americani, un canone di affitto che, tra quello pagato da Tim e dagli altri gestori, poterà a ripagare i 20 miliardi di investimento i meno di 5 anni, trasformando i successivi 10 anni in pingui utili che cozzano con l’interesse nazionale Quando un investimento di questo genere, blindato quanto a rendimento, poteva essere finanziato da parte di un pool di banche investendo solo una minima parte degli utili stratosferici del 2023 che probabilmente bisseranno anche nel 2024, mantenendo la proprietà della rete saldamente in mano pubblica.

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