Concessioni balneari, il governo Meloni (e i partiti di maggioranza) si arrendono all’evidenza

La politica demagogica delle promesse irrealizzabili di Salvini, Gasparri & C. mostra il suo vero volto. Sostanziale marcia indietro rispetto alla procedura d’infrazione, al Pnrr e all’eurocommissiario di peso.

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Concessioni balneari

Nella tragicomica vicenda delle concessioni balneari, la politica italiana ha messo alla ribalta il suo vero, autentico, peggiore volto, dimostrandosi ancora una volta incapace di distinguere tra la priorità degli interessi, preferendo la facile promessa irrealizzabile e non mantenibile buona solo ad incassare il voto del momento, salvo fare una marcia indietro quando gli interessi maggiori della Nazione sono messi a rischio da quelli di una ristretta consorteria di personaggi già ampiamente gratificati dalla mala gestione di un bene pubblico come sono le spiagge del Belpaese utilizzate alla stregua di un bene privato tramandato di generazione in generazione nel corso degli ultimi 50 anni.

E mentre una parte dei concessionari balneari s’esibisce nello scioperetto degli ombrelloni ritardandone l’apertura mattutina per due ore, in un orario dove i vacanzieri sono ancora a letto o, al massimo, a fare colazione, affermando come «la situazione è drammatica per tutti gli operatori in concessione» secondo Antonio Capacchione, imprenditore pugliese e presidente del Sindacato Italiano Balneari della Fipe/Confcommercio, il governo Meloni si trova in mano una situazione kafkiana, figlia del mancato rispetto delle norme europee che prevedono semplicemente l’assegnazione mediante gara pubblica delle concessioni di utilizzo di tutti i beni pubblici, coste ed arenili compresi.

Alla politica fellona timorosa di castrarsi parte del proprio fugace consenso si è sostituito ancora una volta il corpo giudiziario, con sentenze del Consiglio di Stato e dell’Antitrust che hanno sancito l’obbligo di procedere entro la fine del 2024 al rinnovo delle concessioni in essere – scadute e non – mediante gare pubbliche. Gare che consentirebbero anche di recuperare al gracile bilancio dello Stato risorse fresche, perché ormai non è ammissibile che a fronte di un fatturato di circa 115 miliardi all’anno degli operatori del settore, lo Stato incassi dalle concessioni canoni per circa 100 milioni all’anno. Decisamente troppo poco.

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Senza considerare, poi, il mancato rispetto in molte realtà del libero accesso al mare e della disponibilità della spiaggia libera, spesso relegata nei posti meno accessibili o nelle vicinanze dello sbocco di corsi d’acqua spesso inquinati, quando in altri paesi l’accessibilità e la fruibilità senza pedaggi di sorta al bene pubblico spiaggia è garantita, dove semmai i limiti sono posti agli arenili in concessione come in Francia dove non possono superare il 40% della superficie disponibile.

E ai vari amministratori locali sensibili agli accorati appelli dei balneari che rinnovano le concessioni senza alcuna gara, per fortuna che c’è l’Antitrust che sta impugnando sistematicamente al Tar e al Consiglio di Stato tutte le delibere di rinnovo.

Agli operatori balneari che lamentano l’abbandono da parte dei partiti di maggioranza, il governo Meloni deve fare i conti con la realtà composta dalla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea per il mancato rispetto della direttiva Bolkestein, oltre al rispetto degli impegni contenuti nel Pnrr che prevede il rispetto della concorrenza e delle regole europee, con l’obiettivo finale di centrare come paese l’attribuzione di competenzepesanti” e non solo di facciata per l’eurocommissario spettante alla Nazione. E, tutte assieme, questi tre aspetti pesano decisamente più degli strali di una categoria che con le concessioni balneari ha sfruttato per troppo tempo ed ingiustamente le disattenzioni di uno Stato che ha trascurato la valorizzazione dei propri beni a vantaggio di pochi privati, senza peraltro trarre nemmeno il giusto ritorno in termini di entrate fiscali.

Nonostante si parli di crisi del settore e di redditività ridotta se non inesistente – ma solo agli occhi del fisco – in Italia dal 2011 il numero degli stabilimenti balneari continua a crescere. Stando agli ultimi dati di Unioncamere – relativi alla fine del 2023sono oltre 7.000 le imprese del settore, in crescita vorticosa del 26% dal 2011. La Romagna fa da regina, anche se è Camaiore (con 30 attività per chilometro) la prima per densità di imprese. Tanto che in realtà come questa non c’è assolutamente spazio per nuove imprese, rendendo oggettivamente indispensabile la gara pubblica per la loro assegnazione.

Nel litorale italiano lungo 7.466 km, le coste basse sono pari a 3.951 Km (52,9%), per il 42,5% interessate dal fenomeno erosivo (fonte Ispra). Come negli anni precedenti, gli stabilimenti balneari si sono presentati al via più numerosi mettendo a segno una crescita di più del 2% l’anno.

Se la riviera romagnola si conferma al vertice dell’offerta per numero di realtà, quasi al limite della saturazione delle possibilità di accoglienza, Unioncamere segnala che a crescere sono un po’ tutte le altre coste dello stivale con la Calabria in testa (+358 imprese nel periodo) seguita dalla Campania (+188) e dalla Sicilia (+180). Ma in termini assoluti al secondo posto della classifica nazionale, si trova la Toscana con 917 stabilimenti balneari (+111 dal 2021) e al terzo posto c’è invece la Liguria con 797 imprese di spiaggia. Secondo i dati dell’indagine Unioncamere-InfoCamere, basata sul Registro delle Imprese delle Camere di Commercio, al termine del 2023 erano esattamente 7.244 le imprese registrate nel settore della gestione di stabilimenti balneari. E spesso sono attività a conduzione familiare. Le società di persone rappresentano il 42% delle imprese, anche se le società di capitale sono in crescita (31%).

Secondo uno studio realizzato da Nomisma nel 2023 (su un campione di circa 500 imprese balneari dislocate lungo l’intera costa italiana) per conto del S.I.B. Sindacato Italiano Balneari e FIPE-Confcommercio, le imprese balneari impiegano, nei mesi di alta stagione, 60.000 addetti (43.000 dei quali dipendenti stagionali). Ma si tratterebbe di una realtà composta prevalentemente da piccole e piccolissime aziende. Si stima che l’impresa balneare italiana abbia un fatturato medio pari a 260.000 euro. Maggiore è la competitività da parte delle aziende più strutturate (con un fatturato di oltre 300.000 euro), mentre sono alte le difficoltà per quelle tra 120.000 e 300.000 euro.

I servizi cosiddettitradizionali” (spiaggia, parcheggio e noleggio delle attrezzature), contribuiscono a generare la metà del fatturato, mentre quelli relativi alla somministrazione di cibo e bevande costituiscono un valore distintivo. Bar e ristoranti generano una quota addizionale di fatturato intorno al 48% del totale. Il solo ristorante, poi, è in grado di garantire una stagionalità più lunga, oltre 1 impresa su 4, infatti, è in grado di operare per più di 6 mesi l’anno.

 

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