Rapporto Ismea sul biologico: un ettaro su 5 è bio, Italia leader in Ue

L’obiettivo del 25% è più vicino. Il Masaf lavora al marchio di settore. In Trentino nel 2023 perso il 40% della superficie a bio.

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Secondo il rapporto Ismea sul biologico, l’Italia è leader in Europa per superfici e numero di aziende: nel 2023 gli ettari investiti sono aumentati del 4,5% e il numero di operatori dell’8%, arrivando a quota 94.441.

Dal rapporto IsmeaBio in cifre”, presentato a Bracciano, sono coltivati a biologico 2,5 milioni di ettari, pari a quasi il 20% della Superficie agricola utilizzata (Sau), un ettaro su cinque, che va a ridurre ulteriormente la distanza dal target del 25% fissato, entro il 2030, dalla strategia europeaFarm to Fork”.

Il 2024 si prospetta con una crescita ancora più sostenuta, ma sul cammino ci sono ancora ostacoli, tra cui il passaggio alla nuova programmazione della Politica agricola comune (relativo al 2023, anno di riferimento del rapporto) e alle diverse politiche adottate delle amministrazioni regionali, come per esempio in Trentino, che ha perso oltre il 40% della Sau biologica nel 2023. Ma anche la minaccia climatica (flessione in Emilia Romagna). E da Coldiretti l’allarme per il boom dell’import, +40% di prodotti bio dall’estero. Ed è attesa per il marchio su cui il ministero è al lavoro.

«Una delle sfide che abbiamo di fronte oggi – ha detto il sottosegretario all’Agricoltura, Luigi D’Eramo – è la realizzazione del marchio per i prodotti biologici e su questo il tavolo politico che convochiamo con una certa frequenza continua a lavorare. La grafica dovrà essere di impatto e che faccia comprendere l’italianità la qualità».

Diversi poi gli interventi del Masaf sul settore, ha ricordato D’Eramo, dal via libera al Piano d’azione nazionale ai provvedimenti a sostegno dei biodistretti e delle filiere bio al piano per le sementi bio, al Fondo per le mense scolastiche bio fino agli investimenti su innovazione e ricerca.

Un universo molto variegato quello che emerge dal rapporto Ismea sul biologico: a prevalere tra le colture, sono i seminativi (42,1%), davanti a prati e pascoli (29,7%), colture permanenti (22,8%) e ortaggi (2,5%). Ma la crescita ha riguardato soprattutto prati e pascoli e colture industriali e foraggere, mentre hanno perso le proteiche e le produzioni cerealicole. In crescita, seppur a un ritmo più attenuato, le ortive, in un’annata che ha invece confermato le coltivazioni permanenti, nonostante i cali di viti, agrumi e frutta fresca, compensate da ulivi e frutta in guscio.

Un aumento degli ettari che ha riguardato principalmente le regioni del Centro-Nord, mentre il Sud mantiene tuttora l’incidenza più elevata a bio con il 58%, andando così a riequilibrare la distribuzione geografica.

Quanto ai consumi relativi al canale della Gdo hanno toccato i 3,8 miliardi di euro, +5,2% sul 2022, seppure a fronte di volumi invariati. Il confronto con gli acquisti alimentari, cresciuti dell’8,1% in valore ma scesi dell’1,1% in quantità, evidenzia la minore spinta inflattiva del biologico rispetto al carrello convenzionale. Nonostante i buoni risultati, il settore «deve recuperare attrattività agli occhi dei consumatori disorientati dai tanti prodotti che si fregiano di messaggi allusivi alla salute e alla sostenibilità ma che, a differenza del biologico, non sono sottoposti a controlli e regole di produzione», ha detto il presidente Ismea, Livio Proietti.

Secondo la presidente di FederBio, Maria Grazia Mammuccini, c’è la necessità di stimolare la domanda ma anche l’intervento su diversi fattori per dare una spinta propulsiva soprattutto innovazione e organizzazione della filiera, con l’obiettivo del giusto prezzo.

Ed è il prezzo, ha messo in evidenza il presidente del settore biologico di Fedagripesca Confcooperative, Francesco Torriani, in rappresentanza di Alleanza Cooperative Agroalimentari, «il vero fattore di scelta da parte dei consumatori. Occorre fare un salto di qualità per provare a ridistribuire almeno parte del valore aggiunto che si intercetta con la vendita del prodotto finito verso la produzione primaria». Anche perché il differenziale esistente dal campo di produzione al banco delle vendite è ancora troppo marcata e a danno del primo.

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