La pressione fiscale reale in Italia, al netto dell’economia sommersa, si aggira al 47% del Pil secondo il calcolo della Fondazione nazionale dei commercialisti diffuso a margine degli Stati generali della professione.
Secondo le ultime stime Istat di ottobre 2023, la quota di economia sommersa e di quella illegale computata nel Pil è pari al 10,5% nel biennio 2020-2021. Pertanto, la pressione fiscale reale, calcolata sul Pil al netto del sommerso, nel 2021 è pari al 47,6%, con un differenziale di 5 punti su quella ufficiale.
Per il biennio 2022-2023, la Fondazione ha condotto una simulazione ipotizzando un calo della quota di sommerso di un decimale di Pil all’anno: su tale base, «la pressione fiscale reale risulterebbe pari al 47,4% nel 2023 e si ridurrebbe al 46,8% nel 2024 per poi risalire nel 2025 al 47,2% e stabilizzarsi al 46,9% nel periodo 2026-2027». In questo modo, il differenziale con la pressione fiscale ufficiale si ridurrebbe dai 5 punti del 2020-2021 a 4,6 del 2027.
I commercialisti osservano anche le conseguenze dell’eccesso di peso fiscale, specie per le categorie di contribuenti onesti che guadagnano più di 35.000 euro lordi all’anno, soglia fissata dal governo Meloni tra l’accesso o meno alle agevolazioni.
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«I vantaggi del “primo modulo” della riforma dell’Irpef non hanno riguardato i contribuenti con redditi superiori ai 50.000 euro, che scontano un’aliquota Irpef del 43%. È arrivato a nostro avviso il momento di guardare anche a questa fascia di ceto medio. Un eventuale intervento a suo favore, da modulare in funzione delle risorse disponibili, potrebbe interessare un ampliamento del secondo scaglione di reddito, quello con aliquota al 35%, da 50.000 a 70.000 euro. Tale misura risulterebbe neutra rispetto alle varie tipologie di reddito e, pertanto, rispetterebbe il principio di equità orizzontale» ha detto il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano de Nuccio, agli Stati generali della professione svolti a Roma -. L’intervento avrebbe certamente un costo, ma sarebbe comunque contenuto entro un limite massimo di 160 euro per contribuente, per cui è certamente da preferire rispetto a un’eventuale riduzione dell’aliquota del 43%, che avrebbe costi decisamente più elevati, in quanto a beneficiare della minore aliquota sarebbe in tal caso l’intera quota di reddito eccedente i 50.000 euro, anziché soltanto quella da 50.000 a 70.000 euro. L’intervento, inoltre, potrebbe essere graduato nel tempo, incrementando la soglia massima dello scaglione di reddito a cui applicare il 35%, via via che le risorse si rendano disponibili».
L’innalzamento della soglia andrebbe anche a risolvere una questione sottaciuta relativa all’innalzamento delle tasse dovuto al “fiscal drag”, ovvero all’aumento del gettito sotto l’effetto dell’inflazione, a prescindere dal reale potere d’acquisto che cala, finendo con l’impoverire sempre più ampie fasce di popolazione.
De Nuccio ha sottolineato come «il ceto medio sopporta un peso fiscale eccessivo, gravato oltre che della progressività dell’imposta e quindi da aliquote marginali più elevate, anche dall’esclusione di fatto dalla gran parte delle agevolazioni e dei bonus fiscali che sono concessi in base al reddito individuale o all’ISEE. Questo lo penalizza fortemente: non solo sostiene il peso maggiore dell’imposta in termini di versamenti netti, ma realizza anche “perdite” significative in termini di minori o mancati sconti o trasferimenti monetari che si traducono in maggiori esborsi».
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