La stabilità finanziaria italiana migliora, ma il rischio sul debito è elevato

Analisi di Bankitalia sulla situazione economica del paese, delle famiglie e delle imprese.

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Anche se lo scenario internazionale rimane complicato e sempre a rischio di ulteriori tensioni che potrebbero avere conseguenze sull’economia internazionale, la stabilità finanziaria italiana è migliorata negli ultimi mesi.

Nel suo consueto rapporto, la Banca d’Italia elenca una serie di evoluzioni positive: un’economia che dopo il rallentamento di fine 2023 è tornata a crescere, l’inflazione in frenata, banche in buone condizioni e famiglie che hanno ripreso a risparmiare e beneficiare di un aumento del potere di acquisto, anche se ancora limitato rispetto all’erosione subita dalla crescita abnorme dell’inflazione degli ultimi due anni.

Tra le tante luci della stabilità finanziaria italiana, anche un’ombra costituita dal fardello del debito pubblico e soprattutto del suo rapporto con il Pil che viaggia al 140%. Anche se è consistentemente calato il livello del differenziale tra i titoli di stato italiani tra quelli di riferimento tedeschi, con i mercati che non vedono al momento rischi sull’Italia, secondo Banca d’Italia il rapporto debito pubblico/Pil «su valori elevati rimane tuttavia un fattore di rischio», specie se l’economia dovese subire un nuovo rallentamento, così come sembra anticipare per aprile 2024 il nuovo indice Rtt elaborato da Confindustria sull’ammontare delle fatture elettroniche staccate dalle aziende nel corso di un mese

L’istituto centrale ricorda che per rispettare il patto Ue occorreranno tassi di crescita più elevati e «un miglioramento del disavanzo strutturale». L’Italia è obbligata a una crescita più robusta di quella asfittica degli scorsi anni pre pandemia e a mettere a segno avanzi primari per rispettare gli obiettivi di riduzione del debito, aspetto quest’ultimo di importanza rilevante vista la ritirata delle banche centrali dal “quantitative easing”, che vede diminuire la quota di debito pubblico in mano alla Banca d’Italia.

Chi compra il debito pubblico italiano, attratto dai buoni rendimenti offerti, sono le famiglie che spostano la loro liquidità dai conti correnti (che oramai possiedono oltre il 10% dei titoli di stato) e i fondi esteri. Il successo del Btp Valore, che può beneficiare anche di una tassazione agevolata, è parte di questo generale andamento. Chi invece vende i titoli del debito pubblico italiano sono le banche e le assicurazioni.

Secondo la Banca d’Italia le famiglie si trovano «in una situazione finanziaria nel complesso solida» grazie anche alla ripresa dei mercati che ha ridato valore agli attivi in portafoglio. Certo chi ha un mutuo a tasso variabile e non lo ha rinegoziato soffre di più: questi «hanno subito un deterioramento poco più marcato» rispetto al totale dei prestiti «e nel corso del 2023 la quota di famiglie con almeno una rata in ritardo è leggermente aumentata, sebbene si mantenga inferiore alla media degli ultimi dieci anni».

A causa degli alti tassi nel 2023, le famiglie (e anche imprese) hanno ridotto, fino ad azzerarne la crescita, le richieste di prestiti alle banche. Tuttavia il comparto del credito resta in buona salute. Il margine si sta riducendo, ma resterà alto nel 2024 e potrà così affrontare l’aumento dei crediti non pagati previsto, il quale comunque si manterrà lontano dai picchi visti nella crisi finanziaria.

La stabilità finanziaria italiana potrebbe migliorare se si saprà spendere meglio di quanto fatto finora con i fondi a disposizione provenienti dall’Europa, a partire dalla spesa asfittica sui fondi di coesione e del Pnrr, con i primi che evidenziano la storica incapacità di spesa di Stato e degli enti regionali (i fondi del periodo 2014-2020 pari a 126,6 miliardi di euro a fine ottobre 2022 ne erano stati spesi solo il 34%, pari a 36,1 miliardi, con il rimanente restituito all’Europa, mentre la tornata 2021-2027 sta viaggiando nuovamente con il freno tirato perché al 31 dicembre 2023 ne erano stati impegnati per meno del 6,5% del totale, pari a 4,8 miliardi, e ancora meno effettivamente pagati, appena lo 0,7% pari a 535 milioni) e con i secondi che vedranno in soli due anni la spesa di oltre 150 dei 197 miliardi del piano. Una sfida oggettivamente improba, che si riflette sulla mancata crescita del paese e sull’aumento dei divari tra Nord e Sud, visto che gran parte dei fondi di coesione e del Pnrr sono vincolati alla spesa nelle regioni del Mezzogiorno.

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