Elezioni europee e la corsa a regalie, bonus e cotillon della politica italiana

Nonostante le note difficoltà del bilancio statale, si fa a gara per applicare i dettami del Superbonus al mondo del lavoro, offrendo più della spesa sostenuta.

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elezioni europee

Le elezioni europee fanno scattare la politica verso la corsa alle regalie e ai bouns dal chiarissimo sapore preelettorale, buoni solo a ingraziarsi il consenso degli elettori, offrendo di tutto e di più, scimmiottando quanto già successo con i Superbonus dell’edilizia, mettendo in palio bonus dal 120 al 130% dei costi sostenuti per l’assunzione di nuovi dipendenti, di donne o, ancora, degli esodati dal reddito di cittadinanza. Il tutto, a quanto pare, solo per un anno, rischiando di innescare la solita sbornia della corsa all’accaparramento, costi quel che costi.

Solo che la politica pare, ancora una volta sotto elezioni europee, fare i conti senza l’oste, visto che si vuole spingere sulle nuove assunzioni quando i primi mesi del 2024 hanno già centrato il record storico dell’occupazione, con le imprese che girano a vuoto nell’assunzione delle maestranze di cui necessiterebbero, specie se qualificate.

A cosa serve, allora, agevolare nuove assunzioni quando manca la materia prima e quando pare difficile crescere ancora nel parco lavoratori? Il rischio concreto è che le imprese più grandi e strutturate vadano a scippare lavoratori a quelle più piccole che non possono competere sul fronte degli stipendi, spingendo al rialzo le retribuzioni medie italiane, che rimangono tra le più basse d’Europa. Ma che, parimenti, rischiano di mettere a rischio la competitività nazionale che già di suo è parecchio traballante per via dei tradizionalinodi” irrisolti del sistema paese.

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Ma poi, cosa serve vagheggiare a 40 giorni dalle elezioni europee di un nuovo bonus da 100 euro per arricchire le tredicesime dei dipendenti con redditi fino a 25.000 euro lordi con carichi di famiglia, quando costoro sono già a tassazione zero e, di fatto, sono a carico della collettività per i servizi pubblici di cui usufruiscono, che sono pagati solo da quel 35% di contribuenti che hanno la sventura di essere consideratiricchi” (tra virgolette) per guadagnare più di 35.000 euro lordi all’anno? Sarebbe bello saperlo, anche perché, a dispetto delle promesse (preelettorali anche queste, ma delle Politiche 2022) con cui si voleva dare respiro ad una classe media italiana ormai quasi pressoché estinta, anche il governo Meloni continua sulla vecchia strada senza alcuna svolta.

E poi, da una maggioranza di centro destra, la prima dopo lustri di governi di centro sinistra più o meno legittimati dal voto popolare, ci si sarebbe aspettata maggiore attenzione verso il mondo di chi ha maggiori responsabilità o capacità d’intrapresa, con conseguenti redditi più alti della semplice manodopera, affrancandolo almeno in parte dall’esproprio legalizzato del 43% di tassazione che scatta oltre la soglia dei 50.000 euro lordi, anche per ridurre le differenze verso gli autonomi che scelgono la “flat tax” al 15% con tetto fino ad 80.000 euro.

Ma anche per un semplice confronto con altre realtà capitalistiche, a partire dagli Stati Uniti, dove l’aliquota maggiore del 37% – non del 43% italiana – scatta ben oltre i 600.000 – seicentomila – dollari di guadagno annuo, che salgono a 730.000 se la dichiarazione è congiunta di entrambi i coniugi. Ben 12 volte la soglia italiana.

Più che ad assistere alla solita girandola di premi, bonus e cotillons, dal premier Giorgia Meloni sarebbe stato bello assistere ad un concreto impegno per contenere e razionalizzare la spesa pubblica ormai lanciata oltre 1.000 miliardi all’anno – quando prima del Covid stazionava attorno a quota 800-850 miliardi annui – per trovare risorse per assicurare i servizi pubblici e per ridurre il peso fiscale gravante su cittadini ed imprese, agendo anche sull’odiosa ed ingiustificata tagliola della tosatura annuale del 26% sui rendimenti maturati dai fondi delle casse previdenziali privatizzate che interessano le categorie professionali e del lavoro autonomo grazie all’esproprio deciso dal governo Renzi nel 2014 – quello che ha inventato il bonus degli 80 euro che, guarda caso, fruttò un formidabile successo elettorale al Pd – che finisce con il gambizzare il montante delle pensioni contributive che finiranno con l’erogare trattamenti molto bassi se non da fame, nonostante un ingente capitale versato.

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