Il Pnrr sta centrando tutti gli obiettivi procedurali previsti dal cronoprogramma, ma la spesa effettiva procede a rilento e rischia di slittare agli ultimi anni del piano che scade a dicembre 2026, tra due anni e 9 mesi e la Corte dei Conti suona un nuovo campanello d’allarme sul piano di ripresa e resilienza, in un’analisi parziale di alcuni progetti del 2023 che anticipa la relazione generale che sarà presentata dopo Pasqua.
Uno studio che per il ministro responsabile del Pnrr, Raffaele Fitto, è positivo, perché dimostra che «la strada intrapresa è quella giusta», visto che gli obiettivi sono in linea con il cronoprogramma e i ritardi nella spesa vengono affrontati dalla revisione del piano.
I giudici della Corte dei Conti hanno esaminato 50 investimenti più una riforma del Pnrr, toccando tutte le sei missioni del piano, e aggiungendo sei interventi del Pnc, il Piano nazionale complementare. E hanno puntato i riflettori su un’area di osservazione pari a 51,25 miliardi di euro (al netto delle iniziative stralciate dalla revisione), ossia il 22,77% delle risorse complessive. Un’analisi quindi limitata, portata avanti da una delle sezioni della Corte, che confluirà nella relazione generale assieme ai resoconti delle altre sezioni. Per ora, però, l’attività di controllo dei magistrati contabili può dare un’idea del progresso generale.
Prima di tutto, è emerso il «sostanziale raggiungimento degli obiettivi procedurali», ovvero adozione dei provvedimenti amministrativi, pubblicazione degli avvisi, stipula delle convenzioni con i soggetti attuatori, emanazione dei decreti direttoriali e trasferimenti di somme a titolo di anticipazione.
Ma dall’altro lato resta uno «scostamento tra spesa attesa e spesa sostenuta» che, «seppur attenuatosi, è destinato a determinare uno slittamento di quella effettiva negli ultimi anni di adozione del piano». In sostanza, guardando ai progetti analizzati, la Corte dei Conti ha concluso che il tasso di progressione della spesa per l’intera durata del piano (2020-2026) risulta pari al 74,57%: su 4 miliardi circa ne sono stati spesi 2,9.
Secondo la valutazione per singola missione, la spesa ancora da sostenere per gli interventi esaminati è soprattutto concentrata nella missione 2 (rivoluzione verde e transizione ecologica), dove mancano 14,1 miliardi di euro circa, mentre per le altre missioni manca una cifra vicina ai 7 miliardi di euro, ad eccezione della missione 3 (infrastrutture per una mobilità sostenibile). Per i magistrati «lo iato fra adempimenti procedurali e spesa effettiva resta ancora molto significativo e non può non destare attenzione».
In pratica, quello che spesso è accaduto lo scorso anno è che le procedure amministrative sono andate avanti regolarmente, ma poi tutto si è bloccato all’avvio degli interventi da parte di enti attuatori e gestori a causa delle richieste di rimodulazione, anche parziale, formulate dalle amministrazioni titolari.
Per la Corte dei Conti è interessante l’analisi delle cause che hanno impedito alle imprese di percepire finanziamenti. Più di un’impresa su tre non ha riscontrato bandi di interesse: quelle interessate a percepire aiuti diretti hanno segnalato la mancata assegnazione dei contributi, mentre quelle interessate alle gare hanno sottolineato inadeguatezza dei bandi, complessità delle procedure, tempi ristretti o scadenza dei termini.
Il surplus di fondi che deriva da risorse non spese, ha effetti anche sulla coesione territoriale, in particolare nel Mezzogiorno dove le singole regioni continuano a marciare a velocità diverse. «La quantità di passaggi burocratici a cui è necessario adempiere e la complessità della documentazione da fornire fa sì che gli enti locali meno efficienti siano scoraggiati anche solo dal presentare le domande», sottolinea la Corte. Il risultato è che rischiano di essere esclusi dai fondi proprio quei territori che ne avrebbero più bisogno. Per questo per i giudici la capacità amministrativa è «critica», e potenziarla è «fondamentale per la riuscita del piano».
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