Gli agricoltori europei sono mobilitati contro la deriva della politica europea che con il “Green Deal” ha partorito una pessima strategia per il comparto agroalimentare comunitario, visto che il piano “Farm to Fork” finisce con il penalizzare pesantemente la produzione comunitaria a favore dell’ampliamento delle importazioni di prodotti che, spesso, sono realizzati con l’utilizzo di metodiche da anni vietate in Europa e con un impatto ambientale decisamente superiore a quello comunitario. Con il contrappasso che per limitare quel misero 0,9% di emissioni di cui è responsabile a livello globale il settore agricolo europeo si finisce con l’incrementarlo per multipli incentivando la produzione estera e i successivi trasporti in Europa.
In Europa ci sono 9 milioni di aziende agricole che coltivano circa 158 milioni di ettari dando lavoro a 40 milioni di persone. In dieci anni sono sparite 2,5 milioni di aziende e la superficie coltivata è diminuita del 4,5% con una perdita di oltre 7 milioni di ettari.
Il valore aggiunto agricolo è pari a 230 miliardi di euro; l’Europa importa per 157 miliardi di euro con un balzo dell’import nell’ultimo anno del 34%. Il tema dell’import è cruciale perché è uno dei motivi più forti della protesta in corso degli agricoltori europei in tutti i maggiori stati produttori, compreso il piano “Farm to Fork” che costituisce una delle gambe del “Green Deal” ideato dalla Commissione europea e dal suo ex vicepresidente, il socialista olandese Frans Timmermans.
Lo stesso Commissario all’agricoltura, il polacco Janusz Wojciechowski ,ha riconosciuto che le mitigazioni intervenute a seguito di ripetuti voti dell’Eurocamera dovrebbero favorire il dialogo e lo stesso Maros Sefcovic, che ha preso il posto di Timmermans nell’attuazione del “Green Deal”, ha ammesso che la sostenibilità del settore primario non può essere pagata solo dagli agricoltori europei.
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Il piano “Farm to Fork” prevede di abbandonare il 10% della superficie agricola, di convertire forzatamente il 25% del coltivato a biologico, di abbattere del 50% l’uso di fitofarmaci (concimi e antiparassitari). Da notare che in tutti gli accordi internazionali siglati dall’Unione europea, questa non ha mai chiesto l’attuazione di “clausole specchio”, cioè pretendere che i prodotti importati rispettino le stesse regole.
Ursula Von der Leyen ha siglato, ad esempio, un accordo col Mercosur dando libero accesso alle merci brasiliane sul mercato europeo. Il Brasile, che è il primo fornitore di semi oleosi e cereali e che ha aumentato l’export verso l’Europa quest’anno del 51%, ha solo lo 0,5% di superficie coltivata a biologico, e un terzo dei fitofarmaci che utilizza è vietato in Europa. Solo nel 2023, il Brasile ha approvato 37 principi attivi per uso agricolo che sono fuorilegge in Europa.
Gli Usa e la Cina, da cui l’Europa importa parecchio, da soli rappresentano il 27% delle emissioni agricole del mondo (contro lo 0,9% dell’Europa). L’Europa ha aperto all’importazione dalla Cina praticamente di tutto, ma Pechino in cambio acquista meno carne di maiale. Superata la peste suina che aveva decimato la produzione interna, i cinesi sono tornati in collaborazione con i russi a produrre maiali – ne sono i primi consumatori al mondo – che allevano in stalle verticali situate in grattacieli con decine di piani dove sono stipati dai 10.000 ai 40.000 capi. Tutto ovviamente nel mancato rispetto del controllo delle emissioni che in Europa sono diventate un mantra del politicamente corretto.
Tutto questo è stato fatto per abbattere le emissioni climalteranti di cui l’Europa è responsabile del 9% delle emissioni mondiali, con il settore agricolo europeo che ne vale il 10,4%: di fatto, per mitigare lo 0,9% delle emissioni globali Von der Leyen e Timmermans hanno deciso di azzerare l’agricoltura europea. Al punto che si voleva equiparare la zootecnia alle emissioni industriali, previsione che il Parlamento ha fortunatamente bocciato.
A tenere alte le proteste degli agricoltori europei non c’è solo il “Farm to Fork”, ma anche lo scenario dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, scenario che di fatto poterebbe al trasferimento quasi integrale delle sovvenzioni oggi incassate dagli agricoltori degli attuali 27 paesi Ue a Kiev.
Alcuni numeri sono esemplificativi: nel 2022 sono stati importati cereali e semi oleosi per 11,5 miliardi di euro da Kiev, mentre nel 2023 la cifra è salita a 13, a cui si sono aggiunti i polli. Fino al giugno 2022, i quantitativi erano contingentati a 90.000 tonnellate di carni avicole, ora si è arrivati a 218.000 tonnellate con un aumento del 240% in un anno. Lo stesso vale per il latte e i prodotti caseari che hanno avuto un boom: latte e panna (23%), formaggi (24%), caseina e caseinati (17%) e burro (15%).
In particolare, in Romania il latte ucraino fa paura agli allevatori locali. Il commercio del grano è in mano alle quattro big del mercato dei cereali ABCD (Acer, Bungie, Cargil e Dreyfuss: tre multinazionali statunitensi e una franco-olandese) che si appoggiano ad oligarchi locali e lo stesso vale per il pollame che ha esportato in Francia un più 122% di prodotti avicoli. Sempre i francesi lamentano un’invasione dello zucchero ucraino, passato da 25.000 tonnellate nel periodo prebellico a 350.000 tonnellate nel 2023. Sulle barricate così ci sono anche i produttori di barbabietole d’Oltralpe.
A dimostrazione di come la Commissione non tenga in conto le conseguenze sul mondo agricolo delle sue strategie spesso di impronta ideologica, tranciante il commento del professor Felice Adinolfi, direttore del centro studi Divulga, uno dei più accreditati in Europa sull’economia agraria, che nella sua analisi sul “Green deal” ammonisce «quella dell’Europa rischia di essere una corsa solitaria e penalizzante». L’impatto del “Farm to Fork” sulla produzione agricola europea «ha come comune denominatore la previsione di riduzione della produzione agricola, di aumento dei prezzi al consumo e di calo della redditività degli agricoltori europei» e «l’iniziativa europea di lotta alla crisi climatica rischia di trasformarsi in un boomerang».
Secondo Divulga, «se il “Green Deal” non troverà reciprocità, peggiorerebbe particolarmente per il settore cerealicolo, con un calo delle esportazioni del 38% ed un aumento dell’import del 39%. La carne suina vedrebbe un crollo del 77% dell’export».
Il “Green deal”, negli studi di Jrc (il centro di ricerca europeo) del Dipartimento agricolo americano e dell’Università di Wengen, significa un crollo produttivo di 20 punti, un aumento delle importazioni di circa 39 punti, un crollo dell’export del 20% e un aumento dei prezzi agricoli che va da un minimo del più 24% per la carne bovina a un più 92% per gli agrumi.
Un ottimo affare per gli agricoltori, ma solo per quelli extraeuropei.
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