In un periodo di scioperi generali a rate, articolati su base territoriale e per categorie, ci si chiede quale sia la reale forza economica dei sindacati nazionali, almeno dei tre maggiori della Triplice sindacale, Cgil, Cisl e Uil, e da dove provengano. Senza dimenticare il braccio dei patronati, 23 organizzazioni nazionali e locali, spesso emanazione diretta del mondo sindacale.
Secondo i bilanci depositati del 2022 e un’inchiesta del settimanale Espresso di qualche tempo fa, la Cgil forte di 5,16 milioni di iscritti, di cui 2,5 milioni di pensionati, dichiara a livello federale di avere incassato nel 2022 21,73 milioni di euro, pari ad un incasso di 4,2 euro annuo per ciascun tesserato. Un po’ troppo poco, visto che la quota sindacale è pari all’1% del reddito netto dei lavoratori iscritti. Se si prende come base un reddito nettomensile di 1.500 euro, questo genera una quota di 15 euro mensile, pari a 180 euro all’anno. Un valore decisamente maggiore rispetto a quanto dichiarato, visto che tra federazioni locali e di categoria il bilancio realedi tutta la Cgil vale almeno 20 volte tanto, oltre 400 milioni di euro.
La musica non cambia per il secondo sindacato nazionale, la Cisl, che dichiara 4,1 milioni di tesserati di cui 1,66 milioni pensionati, con una quota di tesseramento di circa 0,7% del reddito netto degli aderenti. Anche qui, a fronte di un bilancio federale di 20,36 milioni di euro si deve moltiplicare questa cifra almeno 15-20 volte tanto.
Infine la Uil il sindacato con minore tesserati della classica Triplice nazionale, con 2,3 milioni di iscritti di cui poco più di mezzo milione di pensionati che, con minori tesserati, dichiara più entrate dei due sindacati maggiori, pari a 29,9 milioni di euro, valore destinato a lievitare per almeno una decina di volte in termini reali.
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Di fatto, la Triplice sindacale è in grado di movimentare una notevole cifra economica, tale da consentire la mobilitazione di massa, con il noleggio di treni, pullman, palchi, sistemi audio-video, catering e molto altro ancora. Tutte cose che costano non poco.
Ma questo non è tutto: a completare il panorama ci sono anche i patronati, organizzazioni di assistenza dei lavoratori e dei semplici cittadini, spesso emanazione diretta dei sindacati, che si occupano di pratiche sociali, pensionistiche e fiscali. Per queste 23 organizzazioni riconosciute dallo Stato, la legge 152 del 2001 fissa un finanziamento pubblico per i servizi resi pari allo 0,199% dell’intero gettito dei contributi previdenzialiobbligatori incassati da tutte le gestioni amministrate da Inps, Inail, Inpdap (dipendenti pubblici) e Ipsema (marittimi), questi ultimi due soppressi e confluiti nell’Inps per un ammontare di 420 milioni di euro, che l’ultima legge di bilancio ha confermato anche per il triennio 2024-26 in 426.575.000 euro che, gira e rigira, giungononelle mani dei sindacati.
Proprio su questa spesa il governo Meloni potrebbe agire per riportare all’interno della pubblica amministrazione progressivamente tutti quei servizi di assistenza e consulenza attualmente appaltati all’esterno ai patronati, sia per ridurre la spesa che per migliorare la trasparenza della gestione dei fondi, senza contribuirea foraggiare indirettamente la Triplice sindacale.
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