Sindacati automotive europei preoccupati per il futuro dell’auto

A rischio il 35% dei posti di lavoro con l’approvazione del divieto ai motori termici al 2035 e la componentistica italiana. Allarme recepito dal governo italiano. 

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I sindacati automotive europei  sono preoccupati perché l’industria europea rischia di perdere circa il 35% della propria forza lavoro, attualmente 2,6 milioni di posti di lavoro che arrivano a 13 milioni se si considera anche l’indotto, se il pianoFit for 55appena varato dal Trilogo tra Commissione europea, Consiglio europeo e Parlamento europeo verrà definitivamente approvato e con esso il divieto alla commercializzazione al 2035 di veicoli nuovi spinti da motori a combustione interna.

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Uno scenario che preoccupa grandemente i sindacati automotive europei riuniti in IndustiAll Europe che ha tenuto una riunione straordinaria in Italia. «L’industria automobilistica sta attraversando una trasformazione senza precedenti. La perdita di posti di lavoro su larga scala, l’aumento della pressione sui lavoratori rimasti e i danni sociali saranno inevitabili se l’elettrificazione e l’automazione del settore continueranno a essere lasciate alle sole forze del mercato – afferma Luc Triangle, segretario generale IndustriAll Europe -. Abbiamo bisogno di investimenti per trasformare gli impianti esistenti e sviluppare le catene di fornitura necessarie per produrre i veicoli di cui abbiamo bisogno in Europa e nel mondo per affrontare l’urgenza climatica. Per garantire una transizione equa e mantenere i lavoratori a bordo in questa rivoluzione industriale, dobbiamo avere strategie negoziate che anticipino meglio i cambiamenti in corso».

Nella sola Italia, secondo Fim, Fiom e Uilm, ballano 120.000 dei 250.000 occupati del settore, soprattutto in quello della componentistica che da solo annovera 168.000 addetti. «L’Italia è uno dei Paesi più impattati da questa transizione», ha detto il leader Fim, Roberto Benaglia, che, con Fiom e Uilm, auspica un rafforzamento del tavolo per l’automotive «in modo da permettere una forte riconversione del settore».

Il problema vero è tutto di portata politica e, soprattutto, ideologica, perché scelte come quella europea rischiano di essere solo un colossale boomerang sociale ed economico, con danni multimiliardari per non toccare il problema che si vorrebbe risolvere, visto che l’abbattimento delle emissioni che il pianoFit for 55” si propone di raggiungere riguarda solo l’8% delle emissioni totali di gas climalteranti – di cui l’Italia è responsabile solo dell’1% -, quando il 50% delle emissioni è ascrivibile a soli tre paesiCina, Usa e India – che si pongono scadenze di neutralità climatica molto più in là di quelle europee – la Cina punta al 2060 invece che al 2035 come in Europa. Con i conseguenti problemi di concorrenza sleale e di competitività della manifattura europea che deve affrontare costi maggiori rispetto a quella dei competitori che hanno programmi di neutralità climatica molto più diluiti nel tempo.

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