Accusata di aver raccolto informazioni dalla localizzazione utenti senza il loro consenso, Google pagherà 391,5 milioni di dollari per mettere fine alla vicenda, che ha coinvolto 40 stati Usa. Ad annunciare l’accordo, il procuratore generale dell’Oregon, Ellen Rosenblum, che si è occupato del caso insieme al procuratore generale del Nebraska, Doug Peterson.
Si tratta del più grande accordo sulla riservatezza dei consumatori mai condotto da un gruppo di procuratori generali, secondo quanto riferito dagli inquirenti americani. Anche quando gli utenti pensavano di aver disattivato la localizzazione utenti nelle impostazioni del proprio account, secondo l’accusa, Google avrebbe continuato a raccogliere informazioni sulla loro ubicazione. L’accordo richiede che Google, a partire dal 2023, sia più trasparente con gli utenti e fornisca informazioni più chiare sul tracciamento della posizione.
«In coerenza con i miglioramenti che abbiamo apportato negli ultimi anni, abbiamo risolto questa indagine basata su policy di prodotto obsolete che abbiamo modificato anni fa» ha dichiarato il portavoce di Google, Josè Castaneda. La società ha fatto sapere che «farà aggiornamenti nei prossimi mesi per fornire controlli e trasparenza ancora maggiori sui dati sulla posizione». Questi aggiornamenti includono anche procedure semplificate per l’eliminazione dei dati sulla posizione dei vari utenti dei servizi di Google.
«Per anni Google ha dato la priorità al profitto rispetto alla privacy dei propri utenti – ha dichiarato il procuratore Rosenblum -. Sono stati furbi e ingannevoli. I consumatori pensavano di aver disattivato le funzioni di tracciamento della posizione su Google, ma la società ha continuato a registrare segretamente i loro movimenti e a utilizzare tali informazioni per gli inserzionisti».
Il procuratore generale del Connecticut, William Tong, ha parlato di «vittoria storica per i consumatori. I dati sulla posizione sono tra le informazioni personali più sensibili e preziose raccolte da Google e ci sono tanti motivi per cui un consumatore può rinunciare al tracciamento».
La vicenda sulla localizzazione utenti era stata sollevata nel 2018 da un’inchiesta dell’Associated Press dopo aver scoperto che Google aveva continuato a tracciare i dati sulla posizione delle persone anche dopo che queste avevano rinunciato al tracciamento, disabilitando la funzione “cronologia delle posizioni”.
Per Google non è la prima causa legata all’uso dei dati di localizzazione e altre sono attive. Il mese scorso, Google ha risolto una causa simile con l’Arizona e la società deve affrontare ulteriori azioni legali per il monitoraggio della posizione in corso in Texas, Indiana, nello stato di Washington e nel Distretto federale di Columbia. Anche in questo caso, i procuratori generali statali sostengono che Google stia utilizzando i dati sulla posizione per finalità legate alla raccolta pubblicitaria.
Tra le richieste contenute nelle cause, anche l’obbligo che Google renda noto l’algoritmo e i profitti collegati all’attività considerata illecita. Il rilevamento della posizione è uno degli strumenti più efficaci in mano alle aziende tecnologiche per vendere annunci digitali ai professionisti del marketing, che cercano di entrare in contatto con i consumatori nelle loro vicinanze. Nei primi sei mesi 2022, Google ha registrato un fatturato di 111 miliardi di dollari dalla pubblicità, più di qualsiasi altro venditore di annunci online.
Di qui la necessità di riequilibrare i rapporti tra i vari protagonisti della comunicazione, limitando la capacità di drenaggio delle risorse pubblicitarie dai vari Google, Facebook e altri social per ridare più spazio agli editori puri, che si trovano saccheggiate le loro risorse dai vari aggregatori per un pugno di centesimi quando va bene, a fronte di utili miliardari.
Se in America Google si è comportata in modo, diciamo, disinvolto, in Europa cosa accade? Cosa aspetta la Commissione europea a controllare e a riequilibrare la posizione di indiscussa posizione preminente dei vari Google & Co. a favore degli editori puri, sia per garantire la qualitàdell’informazione, vuoi per garantire il pluralismo delle voci?
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