Salario minimo, no a comprendere l’apprendistato

La Cgia esprime parere favorevole solo considerando il trattamento economico complessivo dei lavoratori, non la paga oraria.

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Denaro contante Federcontribuenti salario minimo

L’Ufficio studi della Cgia mette i paletti sulla proposta di introdurre anche in Italia il salario minimo, dicendosi favorevole ad salario minimo legale a 9 euro lordi l’ora, purché, come riferimento, si consideri il Trattamento economico complessivo (TEC) e non la paga oraria, oltre ad escludere dal provvedimento i soggetti in apprendistato.

Il TEC, infatti, oltre alla retribuzione lorda, include anche il rateo delle mensilità aggiuntive (tredicesima e quattordicesima), del trattamento di fine rapporto (TFR), della quota dovuta agli enti bilaterali e di altri istituti di fonte contrattuale, come la riduzione dell’orario di lavoro (ROL), i permessi e le ferie.

Se il calcolo della retribuzione oraria tiene conto anche di queste voci che compongono il cosiddetto salario differito, è evidente, così come ha avuto modo di segnalare nei giorni scorsi Confindustria, che anche le associazioni datoriali più rappresentative degli artigiani e dei commercianti possono affermare con altrettanta fermezza che gli occupati in questi settori già oggi ricevono una retribuzione lorda oraria superiore a 9 euro. Senza contare che, grazie alla storica cultura negoziale presente nel Paese, è sempre più diffusa, soprattutto al Centro Nord, la sottoscrizione tra le parti sociali dei contratti di secondo livello (territoriali e/o aziendali) che, assieme al ricorso del welfare aziendale, consentono alle buste paga dei dipendenti di essere ancor più pesanti.

Dal salario minimo dovrebbero essere esclusi gli apprendisti, altrimenti l’istituto rischia l’estinzione, già oggi in numero esiguo: secondo l’Istat ci sono poco più di 700.000 apprendisti, vale a dire giovani assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. La durata del contratto varia in ragione della tipologia dello stesso: mediamente oscilla tra i 3 e i 5 anni. In linea generale, inoltre, la retribuzione mensiledi un apprendista si aggira attorno agli 800 euro netti. L’importo è basso perché risponde alla filosofia di questo istituto che, introdotto nel 1955, è rivolto a giovani “under” 30 che entrano nel mercato di lavoro senza alcuna esperienza lavorativa e al termine di questo percorso, grazie all’attività di tutoraggio realizzata dell’azienda che li ospita, acquisiscono una professione. Per contro, l’investimento realizzato dall’imprenditore viene “premiato” con la possibilità di beneficiare di un forte abbattimento del costo del lavoro.

Stando ai dati riportati dall’Istat, oltre il 28% del totale degli apprendisti presenti in Italia (in termini assoluti corrispondono a quasi 205.000 giovani) ha una retribuzione mediana oraria pari a 6,59 euro. Sono dipendenti che nella stragrande maggioranza dei casi sono stati assunti da poco; difatti questi apprendisti con retribuzione oraria sotto soglia presentano un numero medio di ore lavorate inferiore a circa il 20% degli apprendisti più “anziani” che, invece, presentano una retribuzione oraria mediana pari a 9,61 euro. E’ evidente che se agli apprendisti neoassunti la retribuzione minima oraria fosse innalzata a 9 euro lordi, nel giro di qualche anno registreremo un crollo dell’utilizzo di questo contratto.

Per le imprese, infatti, assumere un giovane alle prime armi senza alcuna esperienza alle spalle con un contratto di apprendistato non sarebbe più conveniente. Altresì, va ricordato che con questo contratto sono tantissime le generazioni di lavoratori che sono diventati dapprima degli ottimi operai specializzati e poi anche degli imprenditori di successo.

Al netto dei dipendenti dell’agricoltura e del lavoro domestico, in Italia i destinatari dei 933 contratti collettivi vigenti(un’enormità!) alla fine del 2021 sono 12.991.632 occupati. Di questi, il 12% circa (pari a poco più di 1,5 milioni di dipendenti) non èriconducibile” ai principali CCNL più diffusi del settore che, complessivamente, ammontano a 128 contratti sottoscritti dalle associazioni datoriali (Confindustria, Confartigianato, Cna, Confcommercio, Confesercenti, etc.) e dalle sigle sindacali (Cgil, Cisl e Uil) più rappresentative nel Paese. Per contro, i rimanenti 805 contrattisarebbero stati sottoscritti da realtà imprenditoriali e sindacaliminori”, con livelli di rappresentatività molto discutibili e non sempre presenti su tutto il territorio nazionale.

In altre parole, questi 805 contratti che interessano almeno 1,5 milioni di dipendenti rappresentano un’areagrigia” che, rispetto ai contratti firmati dai soggetti “leader”, spesso consentono a molte imprese di praticare condizioni economiche al “ribasso” e gravilesioni” ai diritti dei lavoratori. In termini percentuali, i settori contrattuali più interessati dalla presenza di dipendenti a rischio dumping salariale sono i poligrafici e spettacolo (32% del totale del comparto), terziario/distribuzione/servizi (17% del totale), le aziende di servizi e l’Istruzione, sanità, assistenza e cultura (entrambe con il 14% sempre del totale del settore).

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