In Italia sempre meno capacità di raffinazione di petrolio

I paesi del Golfo Persico la rafforzano con l’entrata in servizio di nuovi 18 impianti. Obiettivo massimizzazione degli utili locali della lavorazione del greggio a danno dei consumatori. 

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La politica italiana (e anche europea) si conferma decisamente poco lungimirante perseverando della strategia fallimentare di ridurre la propria capacità di raffinazione del petrolio greggio, vuoi con leggi ambientali sempre più severe al limite del talebano, vuoi con il sollevamento delle comunità locali che lottano contro l’inquinamento ambientale – ormai ridotto a limiti decisamente bassi – causato da questi impianti.

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Fatto sta che l’Europa non deve preoccuparsi solo della crisi del gas metano: deve interrogarsi – e velocemente – anche sulla carenza sempre più marcata di gasolio, visto che dipende per circa il 15% dei propri consumi dall’importazione di intermedi di raffinazione del gasolio proprio dalla Russia.

Mentre l’Italia (e l’Europa) riduce la propria capacità di lavorazione del petrolio grezzo, viceversa i paesi del Golfo Persico investono massicciamente sull’aumentare la capacità di raffinazione, con 18 nuovi impianti pronti a partire, aumentando di ben il 30% la loro capacità di lavorazione del petrolio. La loro strategia è introitare, oltre il prezzo del petrolio decisamente alto, anche i margini sempre più alti assicurati sul mercato dai prodotti raffinati, a partire da benzina, gasolio e kerosene avio, oltre che delle basi chimiche per l’industria delle materie plastiche. Praticamente, questi paesi si preparano a vendere ai consumatori non più petrolio grezzo, ma prodotti finiti a prezzi decisamente più alti, con il risultato di aumentare la loro ricchezza a discapito dei paesi importatori, che rinunciano proprio a quei margini di guadagno prima garantiti dalla raffinazione nazionale.

Percorso inverso per l’Italia: nel 2019 il Paese possedeva dieci raffinerie attive, un dato sensibilmente inferiore rispetto a quello di circa dieci anni prima quando erano 16. Nel corso degli anni successivi quindi cinque raffinerie hanno completamente cessato la loro attività, facendo calare anche la raffinazione di petrolio, che è scesa dalle 100 milioni di tonnellate annue del 2012 agli 80 milioni di tonnellate annue del 2020.

Insomma, se l’Italia (e l’Europa) non vogliono trovarsi ostaggio delle tensioni volubili del mercato internazionale dell’energia, farebbero meglio a rilanciare la capacità di raffinazione del petrolio greggio, affiancandola a quella delle nuove bioraffinerie che producono combustibili a partire da basi di recupero e di scarto dell’economia circolare. Perché la realtà è che per almeno i prossimi vent’anni sarà praticamente impossibile fare a meno dei carburanti fossili, rendendo necessario assicurarne un adeguato volume produttivo nazionale.

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