L’economia italiana ha fatto segnare nel 2021 una crescita straordinaria, +6,5%. Un numero che non si vedeva da decenni e che ha posto il nostro Paese alla testa di tutti gli altri europei che, nell’anno appena concluso, sono tutti cresciuti meno dell’Italia, dove mancano i lavoratori qualificati.
Le ragioni di questo balzo, come più volte scritto su queste pagine, sono molteplici.
Eravamo l’economia europea più colpita dal Covid, e quindi vi è certamente stato un grande effetto ‘rimbalzo’; ma la crescita record del 2021 è stata determinata anche dalla fantastica flessibilità delle imprese italiane, specie quelle che esportano, che hanno saputo cogliere al volo il rilancio della congiuntura internazionale. Inoltre ha pesato moltissimo la grande fiducia degli imprenditori italiani per la nascita del Governo Draghi, manifestata non solo dalle standing ovation per il premier ogni volta che si è presentato in un’assemblea pubblica di imprenditori, ma soprattutto da comportamenti concretamente espansivi e di investimento degli operatori economici.
Anche il 2022, nonostante una serie di incognite cui faremo cenno, non si presenta male.
Incertezze geopolitiche, in particolare per la crisi Russia/Ucraina; esplosione dei prezzi dell’energia principalmente a causa di questa crisi; impulsi inflazionistici che non vedevamo più da almeno vent’anni legati al rincaro dell’energia ma più in generale a tutti i costi delle materie prime e dei trasporti, fino ad ora non sono riusciti ancora a invertire la direzione delle aspettative. Vi è stato, è vero, nelle ultime settimane da parte dei centri di ricerca internazionali un leggero ridimensionamento della crescita prevista per il 2022, che per il nostro Paese resta comunque sul 4%. Se a fine anno la previsione fosse confermata l’Italia sarebbe cresciuta in due anni del 10,5% (!), e cioè molto di più della caduta del 2020, annus horribilis del Covid, smentendo i profeti di sventura che avevano ipotizzato, a causa della pandemia, un crack definitivo del nostro sistema economico.
Le favorevoli previsioni nonostante incognite e incertezze che si sono addensate all’orizzonte si basano su fattori sia interni che internazionali.
A livello internazionale la ripresa economica postpandemica si sta consolidando. In particolare la Cina, che in molti settori (energia, noli, materie prime) determina l’andamento della domanda mondiale, dopo un rallentamento del secondo semestre 2021, ha ripreso a correre.
A livello interno per prima cosa si ha la sensazione che grazie all’intensissima campagna vaccinale la battaglia contro il virussi stia avviando a positiva conclusione. L’Italia riapre, e l’avvicinarsi della buona stagione consente di guardare al futuro con ottimismo.
Sul piano strettamente economico, oltre al dinamismo del settore privato di cui si è detto, nel corso del 2022 dovrebbero incominciare a sentirsi gli effetti degli enormi investimenti legati all’attuazione del Pnrr e della semplificazione normativaportata avanti dal Governo Draghi. Già nel 2021 si è raggiunto un record assoluto nell’assegnazione di appalti di opere pubbliche: 41,3 miliardi di euro. Le aggiudicazioni del 2021 sono doppie di quelle del 2020, il che ci dice come il settore delle opere pubbliche sia fortemente ripartito. Dei 41,3 miliardi, 10,6 sono aggiudicati dalle Ferrovie dello Stato, 4,1 dall’Anas, 3,3 daiComuni, 3,1 da Terna, 2,2 dall’Enel, 1,7 dal settore sanitario pubblico.
Una mole di investimenti gigantesca che in base alla teoria economica farà sentire il suo effetto moltiplicatore su tutti i settori economici, rinforzando probabilmente anche gli impulsi inflazionistici; basti considerare cosa è successo nel settore dell’edilizia a seguito del superbonus del 110%.
La sfida che abbiamo di fronte, oltre a quella dell’attuazione efficiente delle misure di sostegno legate al Pnrr, è di trasformare la crescita in lavoro e occupazione stabile.
Qui il tema è complesso e non può essere affrontato con la demagogia di posizioni populiste ed estremiste. Ve li ricordate gli annunci di sventura sindacali per la fine del blocco dei licenziamenti attuato nella fase più dura del Covid?
In realtà alla fine del blocco non ci sono stati affatto i milioni di disoccupati che il catastrofismo estremista aveva ipotizzato.
Il problema oggi è esattamente il contrario. Uno dei fattori che rischiano di rallentare o bloccare la ripresa è la drammatica carenza di manodopera, qualificata e non.
Le imprese industriali, specie al Nord, non trovano lavoratori qualificati, operai, tecnici specializzati, ingegneri. Mancano profili di tutti i tipi: analisti e tecnici informatici, manutentori elettrici e meccanici, fonditori, saldatori, carpentieri, artigiani del legno ecc. Ci sono decine di migliaia di posizioni scoperte, e ciò rappresenta un tragico paradosso in un Paese come l’Italia nel quale la disoccupazione giovanile continua a restare molto alta.
Domanda e offerta di lavoro non si riescono ad incrociare e ciò richiama due gravi problemi italiani: da una parte l’inefficienza dei servizi pubblici dell’impiego, plasticamente rappresentata dal fallimento dell’azione dei ‘navigator’ del reddito di cittadinanza, incapaci di avviare alcuno al lavoro se non loro stessi; dall’altra il non efficiente assetto italiano, specie se si fa il confronto con altri Paesi, della formazione professionale.
Il tema della formazione professionale certamente riguarda la sua gestione e gli Istituti che se ne occupano, ma implica anche la necessità di un atteggiamento diverso di giovani e famiglie, di una vera e propria rivoluzione culturale.
Paghiamo il retaggio ideologico del ’68 quando, forse anche giustamente, gli istituti professionali venivano visti come scuole classiste per i figli degli operai che non potevano accedere ai licei e quindi alle università riservate esclusivamente ai figlidella borghesia. L’università e il diploma di laurea venivano percepiti allora come gli strumenti principali per la scalata sociale.
Oggi la situazione è profondamente cambiata.
Le università, nella maggior parte delle facoltà, sfornano sempre più giovani destinati a rimanere disoccupati o sottoccupati rispetto al livello di istruzione ricevuto. Quanti giovani architetti o laureati in giurisprudenza lavorano in studi professionali con orari, mansioni e retribuzioni da call center? Inoltre si registra una forte caduta lungo il percorso formativo di moltissimi studenti: in 1.000 si iscrivono ma soltanto 300 arrivano alla laurea.
La formazione professionale nel nostro Paese, pur non raggiungendo l’eccellenza della Germania, garantisce invece, quasi sempre, l’inserimento spesso qualificato nel mondo del lavoro e un reddito che consente ai giovani di uscire dal precariatoe di formarsi una famiglia.
La nascita degli Its (Istituti Tecnici Superiori) fortemente voluta da Confindustria garantisce percorsi formativi post-diploma finalizzati alla professionalizzazione specialistica organizzati insieme alle aziende, che oltre allo stage devono garantire l’assunzione del personale formato sulla base delle esigenze espresse. L’assurdo è che fino ad ora in molti casi, pur essendoci una fortissima richiesta delle aziende, i corsi restano semivuoti o non si fanno per carenza di iscrizioni.
E qui ritorniamo, come ci spiega il nostro amico Guido Torrielli, presidente dell’Associazione nazionale degli Ibts, a un tema culturale di atteggiamento di famiglie e giovani che non percepiscono il valore di questo tipo di istruzione nel mondo che cambia e continuano a fare scelte formative sbagliate.
È un problema di percezione che va affrontato con comunicazione e marketing.
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