I settori energivori in agitazione: «dopo le fermate, non sappiamo se riapriremo»

Gli imprenditori dell’acciaio, della carta, del cemento, della ceramica, chimica e del vetro chiedono misure immediate e tavolo di confronto. 

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Oggi per i settori energivori della manifattura italiana «il costo dell’energia rende più conveniente fermare che produrre», e «il problema dell’energia diventa drammatico, non importa di che tipo di azienda si tratti, le manifatturiere di precisione o la metallurgia e la siderurgia». Dopo la fase più dura del Covid-19, «stavamo tornando a volumi importanti ma questo ci sta fermando». Le aziende hanno visto il margine operativo «diminuire a ottobre, a novembre azzerarsi e poi andare in negativo, ora più produciamo più perdiamo». Eppure siamo «in una fase di ripresa, con ordini importanti, molto importanti, da tutta Europa». Però se continua così «metteremo i dipendenti in ferie, e poi in Cassa integrazione, ma con ordini che non vedevamo da neanche dieci anni, un boom una ripresache non riusciamo a cavalcare perché più produciamo più perdiamo».

Questo il grido d’allarme lanciato dal fronte imprenditoriale riunto alla Fonderia di Tobole nel Bresciano, rappresentato da Fabio Zanardi ed Enrico Frigerio (rispettivamente presidente e vicepresidente di Assofond), Roberto Vavassori (vicepresidente di Anfia), Michele Bianchi (comitato presidenza di Assocarta) e Franco Gussalli Beretta (presidente di Confindustria Brescia), cui si sono aggiunti in collegamento da remoto Giovanni Savorani(presidente di Confindustria Ceramica), Roberto Pierucci (comitato presidenza di Assovetro) e Davide Garofalo(consigliere di Assomet). Il mondo della politica e delle istituzioni ha visto invece la presenza del leader leghistaMatteo Salvini e degli assessori allo sviluppo economico di regione Lombardia, Guido Guidesi, e (in collegamento) della regione Emilia Romagna Vincenzo Colla.

Il rischio evidenziato dagli imprenditori è che «in 6-8 mesi tutte le nostre produzioni le vedremo sparire da noi e le rivedremo in Spagna, Francia, Germania dove ci sono calmieramenti di Stato per i costi i settori energivori». Quindi, «va bene pensare al futuro, con impianti pilota e combustibili alternativi, ma qui oggi dobbiamo pagare le bollette o ci staccano la corrente e chiudiamo». Ci sono «filiere intere che rischiano di scomparire e altre che a domino rischiano di essere intaccate». Quindi serve «un aiuto del governo adesso, non fra qualche mese, o molte aziende rischiamo la chiusura nel breve periodo».

Tra le richieste avanzate dagli imprenditori, si deve «sterilizzare parte del PUN», il Prezzo unico nazionale dell’elettricità, «tornare a negoziare con chi ha gas con contratti a lungo termine, basta con i contratti spot», e anche a usare le riserve di gas nazionali, tenendo conto che da parte delle aziende «ci sarebbe anche la disponibilità delle imprese a sostenere il revamping delle piattaforme in Adriatico, ma serve ci diano i permessi». Ma, la richiesta all’unisono è «fate presto, come si disse per il sisma dell’Irpinia del 1980», perché «è assolutamente necessario».

Le imprese dei settori energivori «hanno un ruolo chiave nel tessuto industriale italiano e generano 88 miliardil’anno di valore aggiunto, con una forte vocazione all’export che vale circa il 55% del loro fatturato, e sostengono 350.000 posti di lavoro diretti, numero che raddoppia a 700.000 persone calcolando anche l’indotto». La prospettiva per queste imprese è di non riuscire più a garantire ai clienti semilavorati e prodotti e aprire per un gran numero di lavoratori la prospettiva della cassa integrazione. Un rischio ulteriore è che rallenti e fermi l’economia circolare: molti dei settori ad alti consumi energetici sono anche riciclatori di rifiuti e di materie prime secondarie.

Al di là della semplice constatazione di una situazione insostenibile, le associazioni imprenditoriali hanno anche elencato le possibili soluzioni, sia congiunturali sia strutturali, che potrebbero permettere alle imprese per lo meno di non dover affrontare un ulteriore peggioramento nel 2022, dato che lo scenario relativo ai prezzi delle commodity energetiche si annuncia ancora più complesso nei prossimi mesi. In un momento così straordinario le imprese chiedono interventi immediati.

Per mitigare gli effetti devastanti del costo impazzito del gas naturale sui mercati mondiali occorre valorizzare la risorsa del gas nazionale, sia come risposta congiunturale, mediante una procedura di “gas release” per il periodo invernale, sia creando un meccanismo temporaneo che allochi quote del gas estratto in Italia – a prezzo decisamente più basso – in sostituzione di gas importato alle imprese a ciclo termico, impegnate nella decarbonizzazione dei loro processi.

Sul fronte dell’energia elettrica deve essere rinviato il “capacity market” (un nuovo onere che, dal primo gennaio 2022, porterà un aggravio pari a 39,799 euro/MWh nelle 500 ore di picco, quelle in cui il sistema ha la maggiore congestione di consumo, e pari a 1,296 euro/MWh nelle altre ore) e deve essere data «la più ampia applicazione possibile all’art. 39 elettrico». Con uno sguardo di medio periodo serve riformare il mercato elettrico nazionale.

I costi energetici crescono e impoveriscono le imprese, produttori e grandi venditori di energia continuano a fare profitti al di sopra di qualsiasi logica di mercato. Per quel che riguarda le quote CO2 in ambito ETS servono i correttivi, anche temporanei, per limitare la possibilità si spinte speculative causate da investitori non industriali. Inoltre va sbloccata la compensazione dei costi indiretti che in Italia sembra essersi arenata.

«Mai avrei pensato di poter migliorare il bilancio tenendo ferma l’azienda anziché produrre, è il contrario di quello che ci hanno insegnato – dice Enrico Frigerio, vicepresidente di Assofond, amministratore delegato di Effe.bi. Group e di fonderie Torbole -. Il costo dell’energia rende più conveniente fermare che produrre. Io posso farlo fino al 10-17 gennaio perché lavorando per l’automotive ho un magazzino che me lo consente. Ci ripromettiamo di poter ripartire a gennaio con una prospettiva prezzi decisamente in calo rispetto ai prezzi attuali».

Fermando la produzione «il bilancio dell’azienda migliorerà, ma non migliorerà quello dei miei dipendenti e dello Stato che pagherà la cassa integrazione – prosegue Frigerio -. E’ opportuno che lo Stato aiuti il comparto manifatturiero, o il problema diventerà grande e già vediamo i nostri clienti che man mano cominciano a fermarsi».

Sui costi dell’energia «l’industria meccanica ha visto un incremento di 4 volte sui costi produzione, è drammatico, ma più drammatico è per la siderurgia e la fonderia, dove il costo dell’energia è già determinante nel costo di produzione, e se passa dal 20-25% a sopra il 40% non esiste più spazio per la marginalità per continuare produzione, né per la competitività. Il problema dell’energia diventa drammatico. Non importa di che tipo di azienda si tratti, delle manifatture di precisione o della metallurgia e siderurgia, l’incidenza del costo energetico è ormai drammatico e si arriva al fermo delle aziende, che in prospettiva non è assolutamente una buona notizia sia per le aziende che rischiano di perdere competitività, e già ne soffriamo da anni verso altri paesi», dice Franco Gussalli Beretta, presidente di Confindustria Brescia e storico patron dell’omonima industria delle armi.

«Dopo il Covid-19 stavamo tornando a volumi importanti ma questo ci sta fermando – prosegue Beretta – e come Confindustria Brescia il nostro è un richiamo alle istituzioni locali e nazionali ad aiutare il comparto. Il Covid-19 è stato gestito ottimamente perché era un problema drammatico per le persone, ma l’energia sta diventando lo stesso per le nostre aziende, Nel Bresciano ci sono diverse richieste di cassa integrazione che se per le aziende è letale per le comunità è disastroso. Servono provvedimenti per calmierare il prezzo e le rinnovabili possono essere una soluzione, ma ce ne sono anche di altri tipi, ad esempio i metodi di produzione nazionale vanno riattivati velocemente e rinforzati, perché dipendere sempre da qualcuno non è strategico a medio e lungo termine».

Il settore delle fonderie occupa «30.000 persone in tutta Italia, e fanno parte di catene di subforniture strategiche e c’è un indotto che in Italia assomma circa il doppio delle persone sui 60.000 occupati – dice Fabio Zanardi, presidente Assofond -. A settembre, visto il margine diminuire, a ottobre e novembre azzerarsi poi andare in negativo, ora più produciamo più perdiamo e il comparto rischia di sparire».

Di fronte all’impennata dei costi dell’energia l’alternativa è «una morte differita – prosegue Zanardi – ritardiamo la produzione, dilatiamo gli adempimenti, modifichiamo unilateralmente i prezzi di vendita, sono cose che permettono di sopravvivere nel breve, ma vedremo in 6-8 mesi tutte le produzioni sparire da noi, e le rivedremo in Spagna, Francia, Germania dove ci sono calmieramenti per i costi delle industrie energivore. Chiediamo una terza via tra queste due morti che consenta di operare anche se in condizioni difficili mantenendo il nostro business in modo sostenibile, altrimenti nel breve avremo effetti come le chiusure anticipate delle fabbriche, con il rischio concreto di non riaprire a gennaio, perché a noi non conviene riaccendere i forni in queste condizioni. E metteremo i dipendenti in ferie o poi in cassa integrazione, ma con ordini che non vedevamo da neanche dieci anni, un boom una ripresa che non riusciamo a cavalcare perché più produciamo più perdiamo».

Alla luce della situazione, «bene Draghi sugli extraprofitti (quelli incassati dei produttori di energia, specie da quelli da fonte rinnovabile, ndr) e sull’urgenza del tema, c’è chi gode mentre c’è chi muore, ed è anche un problema europeo perché c’è una disparità con i nostri vicini molto grande – prosegue Zanardi -. Noi la decarbonizzazione l’abbiamo avviata da decenni, ma oggi sembra l’ultimo dei problemi vista la situazione, invece dovrebbe essere il tema più importante. Per favore si deve agire presto, altrimenti a gennaio non saremo in condizione di ripartire».

Il sistema europeo di scambio di quote di CO2 “ETS” «da una buonissima intenzione in partenza ci ha portato fuori strada, con l’avvento della speculazione finanziaria che ha iniziato a fare acquisti di quote CO2 senza doverne emettere, causando un aumento del costo della tonnellata di CO2 da 18-19 euro della fine dell’anno scorso agli oltre 90 euro di ora senza una spiegazione – denuncia Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica -. Ora a Bruxelles parlare di ETS che non va è come bestemmiare in chiesa, ma si deve affrontare il tema. Noi esportiamo per l’85%, e in larga parte, il 35%, fuori dell’Ue. Se lo mettiamo a rischio perché perdiamo competitività, la transizione non la potremo gestire noi. Però il prezzo del gas aumentato più del 400% non è una questione di mercato, ma un problema è geopolitico. A questo punto se c’è chi sviluppa il nucleare e chi usa il carbone, ricominciamo a usare il nostro gas naturale. Ci sarebbe anche disponibilità imprese a sostenere il revamping delle piattaforme in Adriatico, ma serve ci diano i permessi».

Per la carta, settore imballaggi, «c’è una fase di ripresa, con ordini importanti, molto importanti, la mia azienda ne sta ricevendo per imballaggi alimentari, ci arrivano richieste da tutta Europa, ma stiamo valutando se prolungare lo stop e riprendere o meno la produzione dopo Natale – avverte Michele Bianchi, del comitato di presidenza di Assocarta -. Il nostro settore ha investito in cogenerazione, ma con il gas cosi costoso oggi siamo fuori competizione rispetto ai paesi nordici, dove hanno le foreste e producono energia a costo zero con il legname mentre noi, campioni del riciclo, non posiamo usare la carta per produrre energia». Quello che si soffre ora è «un costo dell’energia passato dal 20-25% a punte del 40%, molto più della materia prima stessa, e siamo in grande difficoltà – avverte Bianchi – noi siamo al 70% di cogenerazione, ci sta molto a cuore l’uso efficiente gas, ma possiamo anche usare le riserve e ricorrere all’estrazione nazionale di metano per abbassare i costi.

«La mia azienda è passata da una spesa per il gas dai 400.000 euro di fine dicembre a 1,6 milioni per gli stessi consumi a fine gennaio – dice Roberto Pierucci, del comitato presidenza di Assovetro -. A novembre pagavamo un PUN a 263 euro, ma la Germania aveva un PUN a 162 euro con le rinnovabili e la Francia un PUN a 263 euro, ma ne pagava 131 euro per l’ennesimo intervento statale con l’allocazione di 100 TeraWattora pro quota da nucleare». Per Pierucci «va bene pensare al futuro con impianti pilota e combustibili alternativi, ma qui oggi dobbiamo pagare le bollette o ci staccano la corrente e chiudiamo».

Dall’allarme di settembre, quando il costo medio dell’energia aveva un peso del 30% circa, siamo arrivati a dicembre con il 70% e la nostra azienda non compra più materia prima, ma elettricità per produrre i materiali», segnala Davide Garofalo, consigliere di Assomet e amministratore delegato della Portovesme Srl del gruppo Glencore. Una situazione per cui «produrre comportava perdita di profitto per l’azienda e da ottobre è stata decisa la cassa integrazione che si sta materializzando negli attuali più di 400 impiegati diretti a rotazione e quasi altrettanti nelle ditte terze. Si tratta di una situazione frustrante a dir poco – prosegue Garofalo -. Lo scorso anno abbiamo investito 40 milioni per ammodernare i processi nonostante la pandemia e raggiunto un record nella produzione zinco. Si tratta di una situazione non sostenibile, con i prezzi del I e II trimestre 2022 avremo riduzioni anche più drastiche dell’occupazione, con ulteriori misure di protezione con conseguenze su tutti lavoratori diretti e indiretti di Portovesme». Anche per Garofalo le soluzioni sono «il ricorso al gas nazionale, interventi sulla generazione di profitti dei produttori energia a scapito clienti, sulle quote di CO2 con una bolla che non ha rispondenza in Europa e l’attivazione del gasdotto Nordstream 2, ma è indispensabile l’aiuto del governo adesso, non fra qualche mese, o molte aziende rischiano la chiusura nel breve periodo».

Per il settore manifatturiero la testimonianza di Roberto Vavassori, vicepresidente di Anfia e direttore affari pubblici e relazioni istituzionali di Brembo: «l’energia, dopo la crisi dei microchip e delle materie prime per l’automotive sembrava l’ultimo dei problemi e ora è diventato il primo. Oltre ai fornitori sono interessate le filiere lunghe, essenziali per i 100 miliardi di valore dell’automotive, di cui 45 miliardi sulla componentistica, e 200.000 addetti ed è questione di giorni, non settimane. Si dovrebbe fare come in Francia, sterilizzare parte del PUN, oggi lo paghiamo indicizzato al prezzo spot del gas, e se aumenta 8 volte il PUN diventa una pistola puntata alla tempia. Ma dentro il PUN c’è un 40% di incentivi alle rinnovabili, e si dovrebbe creare un sistema per cui ci siano ritorni come sistema – suggerisce Vavassori– e tornare a negoziare con chi ha il gas con contratti a lungo termine, basta con gli spot, ignorando chi dice che in tassonomia Ue il gas avrà pesanti limitazioni».

In tutto ciò si deve tenere conto che «sul gas abbiamo concorrenti formidabili, come la Cina che abbandona il carbone, e la Corea del Sud e il Giappone, che esce dal nucleare, quindi se noi continuiamo a rinunciare agli accordi a lungo termine con i paesi dove di gas ce n’è ci stiamo marginalizzando nel mercato – prosegue Vavassori -. Però, non è Bruxelles che è silenziosa ma è l’egoismo di 27 paesi con interessi opposti. Ma l’Europa è molto più debole di altre aree come gli Usa, infatti perché arrivano 11 navi metaniere che erano dirette in Cina? I cinesi avevano fatto contratti lucrosi, ma con quello che noi paghiamo, una follia, le navi ora vengono da noi, ma loro intanto il gas lo hanno pagato meno e hanno gli stoccaggi pieni. Quindi servono non meno di 11-13 miliardi l’anno per sterilizzare la bolletta, pena la scomparsa di intere filiere».

Dalla politica un’apertura ad una rapida soluzione: per il leader leghista, Matteo Salvini, «come il Covid-19 ritengo che anche l’emergenza energetica sia un’emergenza nazionale. Ritengo che il governo possa assolutamente e auspicabilmente intervenire prima che si entri in clima elezioni del presidente della Repubblica. Mai come adesso il tempo è denaro. Mi sono messo in testa di avere entro la settimana le prime concrete proposte del governo». Si vedrà se quelle del leghista saranno fatti concreti o l’ennesimo sterile esercizio di dare aria alle corde vocali.

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