E’ ripartita a pieno ritmo, dopo la pausa dovuta alla pandemia e i tre concerti a giugno, l’attività concertistica di Musikàmera, iniziata il 6 settembre, che si concluderà il 10 dicembre: 15 concerti, sei dei quali con replica la sera successiva, per un totale di 21.
Il ventiduenne violoncellista Zlatomir Fung, di origine bulgara e cinese, ma nato negli USA, è stato il musicista più giovane ad aggiudicarsi, appena ventenne, il primo premio al prestigioso concorso internazionale “Tchaikovsky” di Mosca.
Alle sale Apollinee del Gran Teatro veneziano, ha presentato un programma da Bach all’era contemporanea, eseguito con un prezioso violoncello “W. E. Hill and Sons” del 1905. Ha esordito, eseguendo quattro degli “11 Capricci per violoncello solo”, i numeri 3, 8, 9 e 11 di Joseph Marie Clemente Ferdinando Dall’Abaco. Nato a Bruxelles nel 1710, mentre il padre, Evaristo Felice, violinista e violoncellista era al seguito dell’Elettore di Baviera, Massimiliano II, fu allievo del genitore, prima di essere mandato a Venezia per ampliare la propria educazione musicale. Si spegnerà ad Arbizzano di Valpolicella (Verona) il 31 agosto 1805.
I Capricci, di datazione non certa, sono scritti in uno stile tardo barocco molto vario che pone la loro composizione attorno agli anni ’60. Di breve durata, ricordano qua e là frammenti delle Suites bachiane per violoncello, ed erano scritti per mettere alla prova la tecnica, il virtuosismo del musicista e le possibilità dello strumento, nel caso dell’esemplare di Fung, dotato di ottima sonorità e chiarezza.
A seguire, Fung ha suonato l’ultima delle “14 sequenze per violoncello solo” di Luciano Berio (1925 – 2003). Secondo le intenzioni dell’autore, “la sequenza XIV, scritta nel 2002 per Rohan de Saram – violoncellista dello Sri Lanka, che aveva introdotto Berio alla straordinaria ricchezza degli strumenti ritmici, in particolare il tamburo di Kandy, l’antica capitale di Ceylon – sviluppa un clima espressivo quanto mai instabile e diversificato ma, direi, consapevole della storia del violoncello. Tutti gli aspetti del pezzo vivono una doppia vita. Vengono usate le corde, naturalmente, con l’arco e con diversi modi, anche inediti, di contatto diretto con le mani, ma viene usata anche la cassa del violoncello come fosse uno strumento a percussione”. Circa 12 minuti intensi, durante i quali Fung, super-concentrato sullo strumento e lo spartito, è in grado di risolvere tutte le insidie nascoste nel pezzo.
Di J. S. Bach, Fung interpreta la “Suite n. 1 in Sol maggiore, BWV 1007”, forse la più conosciuta delle sei, basata su una serie di armonie su accordi verticali. Dopo il preludio, spesso utilizzato anche cinematograficamente, si passa ad una serie di danze, tra le quali spiccano una graziosa Corrente, dall’andamento virtuosistico e dai registri timbrici mutevoli; l’eleganza dei due Minuetti; la semplicità lirica di una Giga ritmica e piacevolissima. Interessante, l’arrangiamento per violoncello solo della “Partita per flauto in La minore, BWV 1013”, che si sviluppa in quattro danze: la cantabile Allemanda; la virtuosistica Corrente; la tristemente dolente e contemplativa Sarabanda; la velocissima, popolaresca Bourrée inglese. Si tratta dell’unica pagina per strumento a fiato solo, senza il sostegno del continuo, del catalogo bachiano, una specie di esperimento per uno strumento appena scoperto.
La serata si conclude con la “Suite in Re minore per violoncello solo”, composta nel 1926 da Gaspar Cassadò, dedicata al suo maestro, Pablo Casals. Un brano presente molto spesso nel repertorio dei violoncellisti. Ha riferimenti alla Suite di Bach, anche se è in soli tre movimenti, per altro con un linguaggio tipico dei musicisti non legati alle avanguardie, che desiderano esternare la propria originalità. A tratti spagnoleggiante, mi ha ricordato in alcuni momenti, la famosa Habanera dalla Carmen di Bizet. Molto carina, gentile, la Sardana, danza nazionale catalana, già praticata nel corso del XVI° secolo. E’ eseguita da un numero variabile di danzatori, uomini e donne, che si tengono per mano e al ritmo ora rapido, ora lento, formano cerchi e file parallele.
Applausi ripetuti inducono il sorridente musicista, felice dell’accoglienza, ad eseguire la brevissima “Marcia” (1943) di Sergej Prokof’ev, ultimi due minuti di un concerto ricco di fascino.
La sera seguente, i Solisti della Fenice – Alessandro Cappelletto, primo violino; Gianaldo Tatone, secondo violino; Petr Pavlov, viola; Nicola Boscaro, violoncello; Stefano Pratissoli, contrabbasso; Konstantin Becker, corno; Vincenzo Paci, clarinetto; Marco Giani, fagotto – hanno eseguito un lungo brano, che è difficile ascoltare nelle sale da concerto: l’Ottetto in Fa maggiore per fiati e archi, op.166, D 803 (1824) di Franz Schubert (1797 – 1828).
L’Ottetto fu scritto in breve tempo (dal febbraio al primo marzo), su commissione dell’Intendente dell’Arciduca Rodolfo (l’Arciduca di Beethoven), conte Ferdinand Troyer, clarinettista dilettante, il quale impose la clausola che fosse “esattamente come il Settimino di Beethoven”. Schubert però lo trasforma in Ottetto, poiché aggiunge un violino agli archi. Rimane uguale il numero dei movimenti, sei come in Beethoven, e uguale è pure l’ordine in cui sono disposti, secondo le forme del divertimento. Il brano dura circa 67 minuti e segue lo schema della Sonata classica con due temi alterni, uno lieto e l’altro vivace. Affascinano le note spesso tenute a lungo dai fiati, mentre gli archi intonano le belle melodie. Nell’Andante molto c’è un inizio tremolante, tenebroso, inquietante del violoncello, prima che gli archi spicchino il volo con l’Allegro finale. Diversi studiosi, secondo il musicologo inglese Maurice Brown, hanno sottolineato che l’Ottetto “riassume lo spirito della Vienna Biedermeier, con la musica delle sue strade, dei suoi Caffehauser, dei suoi teatri, del suo Prater, delle sue sale da ballo”.
Applausi convinti non ottengono alcun bis, da parte degli otto musicisti, prime parti dell’orchestra del Teatro, che danno vita ad un Ensemble dalla timbrica raffinata, al confine tra i chiaroscuri della musica da camera e le sonorità ricche e avvolgenti della piccola orchestra.
Come per i Solisti della Fenice, Musikàmera è riuscita a recuperare, quattro giorni dopo, il concerto del Quatuor Van Kuijk, fondato a Parigi nel 2012. Questa giovane formazione è francese, anche se prende un nome fiammingo, dovuto al cognome del primo violino Nicolas Van Kuijk.
Una bella serata, replicata il giorno dopo, iniziata con l’esecuzione del Quartetto n.1 in sol minore, op.27 (1878) di Edward Grieg (1843 – 1907), forse il più grande compositore norvegese, per parte di madre, ma di lontane origini scozzesi, per parte di padre.
Opera della maturità, è il secondo dei tre Quartetti scritti da Grieg. Articolato in quattro movimenti, è dedicato al violinista Robert Heckmann, che con il suo quartetto lo esegue a Colonia nell’ottobre del 1878. L’opera, ricca di sonorità, si basa su un’idea tematica derivata dalla canzone di Grieg Spillemaend, ambientazione della poesia di Ibsen, che parla dell’Hulder, uno spirito acquatico che offre ai menestrelli grandi doti musicali in cambio della loro felicità.
Particolarmente gioioso, il quarto movimento, in cui emerge il Saltarello, una danza rapida del XVI° secolo, in tempo di sei o tre ottavi, che però, dopo l’esposizione in sequenza – nell’ordine violoncello, viola, secondo e primo violino – vira verso un’atmosfera di suspense. Assai veloce, il finale in levare con momenti di volume molto alto, alla maniera di un’incessante cavalcata.
Nemmeno il tempo di riprender fiato, che il Quatuor torna in pedana per interpretare il Quartetto n.6 in fa minore, op.80 (MWV R 37), di Felix Mendelssohn Bartholdy.
E’ scritto alla memoria dell’amatissima sorella Fanny, scomparsa prematuramente nel maggio del 1847. Il compositore morirà a novembre, lasciando a questa pagina musicale il compito di testimoniare il suo dolore lacerante.
Colpisce l’Adagio, il terzo movimento, che secondo la musicologa Vittoria Fontana “è una malinconica elegia, il cui mesto canto, suddiviso in due temi dal carattere lirico e raccolto, è affidato alternativamente alle voci dei quattro strumenti, fino a un comune e rassegnato sospiro finale. La momentanea concessione alla tenerezza viene spezzata dall’ansiogeno attacco del Finale.Allegro molto, dominato da tremoli, sincopi, improvvisi mutamenti di dinamica, sonorità dissonanti e cromatismi che confermano il profondo tormento dell’anima dell’autore, che esprime in note la sua prostrazione e la sua incapacità a reagire di fronte a un evento del tutto imprevedibile e incomprensibile”.
Applausi e grida di “bravò” riportano i musicisti – oltre a Van Kuijk, il secondo violino Sylvain Favre-Bulle; il violista Emmanuel François; il violoncellista Anthony Kondo – a ritornare in sala per proporre “Les chemins de l’amour” del compositore e pianista francese Francis Poulenc
no subito all’occhio e all’orecchio l’affiatamento e il sincronismo di un quartetto richiestissimo, in tour in ogni parte del mondo.
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