Cgia, altro che il Pnrr: indispensabile qualificare la spesa ordinaria da 890 miliardi

Ogni anno la macchina dello Stato ingoia risorse superiori oltre 4 volte l’ammontare dei fondi europei. Dubbi sulla reale capacità di spesa dell’amministrazione. 

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debito pubblico

Al netto degli interessi sul debito, nel 2020 la spesa pubblica in Italia è stata pari a quasi 890 miliardi di euro: un importo oltre 4 volte superiore a quanto ammontano i fondi europei del Pnrr, 191,5 miliardi di euro, che dovranno essere spesi completamente entro il 2026.

La Cgia apre la discussione sulla necessità di spendere bene e presto queste risorse, criterio che dovrebbe essere sempre applicato, specie alle spese ordinarie dello Stato, che nel 2020 hanno sfiorato gli 890 miliardi di euro. Una spesa che per il 90% circa è di parte corrente e viene utilizzata, in particolar modo, per liquidare gli stipendi dei dipendenti del pubblico impiego, per consentire i consumi della macchina pubblica e per pagare le prestazioni sociali.

Ora, affidare tutte le aspettative di crescita e rilancio del Paese alla “riuscita” del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (Pnrr) è doveroso, cosi come sarebbe altrettanto doveroso che il Governo Draghi intensificasse l’attenzione anche su come vengono impiegati ogni anno questi 890 miliardi di euro e attivi, in misura più incisiva di quanto è stato fatto fino a ora, un sistema di monitoraggio più attento e oculato, iniziando a vincolare gli aumenti promessi (pari a 7 miliardi di euro) dal ministro alla funzione pubblica, Renato Brunetta, ad un effettivo recupero di efficienza e di produttività.

Il PNRR presentato dall’Italia a Bruxelles è costituito da 235,6 miliardi di euro, di cui b riconducibili al “Recovery Fund”, 30,6 miliardi a un fondo complementare finanziato con ulteriore debito interno e gli altri 13,5 miliardi di euro al “REACT-EU”. Di questi 235,6 miliardi, 52,6 verranno investiti per “progetti in essere”, ovvero già previsti, mentre i restanti 183 andranno a finanziare “nuovi progetti”. Pertanto, nel 2026 la crescitadel Pil, anno in cui si concluderà l’azione del Piano, dovrebbe essere più alta di 3,6 punti percentuali rispetto allo scenario che si verificherebbe senza l’effetto degli investimenti aggiuntivi.

Una previsione, quest’ultima, che viene prefigurata nello scenario ottimale, ovvero che gli investimenti vengano spesi in maniera efficiente, che le condizioni monetarie siano favorevoli e che non vi siano ripercussioni negative sul premio del rischio sovrano. Condizioni che, ovviamente, nessuno può confermare che si verificheranno. Un azzardo sul futuro.

Se, rispetto a quanto riportato, il quadro generale fosse meno ottimistico, il Pnrr italiano ipotizza altri 2 scenari: uno medio con una crescita del Pil del 2,7% e uno basso con un incremento dell’1,8%.

Analizzando solo lo scenario ottimale, a fronte di 183 miliardi di investimenti, nel 2026 si avrà un aumento strutturale del Pil di poco inferiore ai 70 miliardi, determinando un moltiplicatore del Pil pari a 1,2. Un risultato non particolarmente esaltante, secondo l’Ufficio studi della Cgia, se si tiene conto che, secondo uno studio della Banca d’Italia, la realizzazione delle opere pubbliche può avere ripercussioni importanti sulla crescita economica di un paese se il moltiplicatore della spesa pubblica per investimenti è compreso tra l’1 e il 2,1.

E’ vero che l’1,2% previsto dal Governo Draghi nel PNRR ricadrebbe nella forchetta indicata dalla Banca d’Italia, ma è altrettanto vero che si raggiungerebbe questo obiettivo solo se tutto andrà per il verso giusto; cosa che molti osservatori dubitano, vista la cronica inefficienza che caratterizza buona parte della pubblica amministrazione nazionale e locale, la mole di burocrazia che attanaglia il Paese, l’incapacitàstorica di spendere tutti i fondi europei specie nelle regioni meridionali dove viene allocato una parte preponderante dei fondi e i tempi di realizzazione delle opere pubbliche italiane che presentano dei ritardi che non hanno eguali nel resto d’Europa e dove il caso della ricostruzione del ponte di Genova pare essere un fatto da consegnare ai libri di storia.

La Cgia ricorda che l’Italia non desta elevata affidabilità in materia di previsioni macro economiche. I dati dell’European Fiscal Board (organo consultivo indipendente della Commissione Europea) sono impietosi: tra il 2013 e il 2019 è il Paese che hasbagliatodi più. Un’altra ragione per dubitare che si sarà in grado di raggiungere la crescita del Pil del 3,6% e, conseguentemente, disporre di un moltiplicatore dell’1,2.

Anche sul fronte occupazionale gli effetti del Pnrr non saranno particolarmente entusiasmanti. Grazie ai 235,6 miliardi di investimenti, nel periodo 2024-2026 l’occupazione in Italia è destinata ad aumentare di 3,2 punti percentuali che, in termini assoluti, equivalgono a 750.000 addetti. Una cifra sicuramente importante, anche se va tenuto conto che solo nel primo anno della pandemia si sono persi 900.000 posti di lavoro, nonostante sia in vigore per legge il blocco dei licenziamenti.

Quella che si prospetta per il governo Draghi e la sua scombinata ed eterogenea maggioranza è una sfidada fare tremare polsi e caviglie, con tante formazioni politiche storicamente più propense alla spesa per interessi assistenziali e clientelari immediate che per la creazione di condizioni strutturali di sviluppo a medio e lungo termine. Scenari troppo lontani nel tempo per una classe politica sgarrupata che ha come solo obiettivo sopravvivere a sé stessa.

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