Materie prime e impennata dei prezzi: industria manifatturiera preoccupata

Agrusti: «occorre immediata assunzione di responsabilità Ue».

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L’impennata dei prezzi di molte materie prime registrata nelle ultime settimane inizia a preoccupare il mondo della manifattura italiana.

Intervenendo al webinar «Shortage e impennata dei prezzi delle materie prime. Speculazione, nuove filiere o altro. Conversazioni e istruzioni per l’uso» il presidente di Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, ha affermato che «la pandemia è l’amplificatore di situazioni verificatesi negli anni, aggravate da scelte scellerate operate in Italia e in Europa. Prendiamo l’Ilva, che difendo ininterrottamente da dieci anni: eravamo esportatori di acciaio, lamiere, semilavorati, anche di produzioni sofisticate. Oggi ne siamo quasi totalmente importatori. Il nostro – aggiunge Agrusti – è un sistema in cui uno sconosciuto sostituto procuratore della Repubblica di Taranto può interferire sulle politiche industriali essenziali di questo Paese. Stiamo inseguendo Procure e Tar bloccati nella produzione di una delle più grandi acciaierie d’Europa, probabilmente per questa ragione».

Secondo Agrusti esistono responsabilità di sistema totalmente nostre alle quali si sono aggiunte problematiche connesse alla delocalizzazione attuata negli ultimi anni verso Oriente: «in Italia l’industria chimica è stata desertificata, aggiungiamoci pure la demonizzazione della plastica… Oramai importiamo praticamente tutto ed abbiamo delegato alla Cina la produzione di componenti sofisticate: chi oggi acquista un’auto, qui o negli Usa, attende dai 9 ai 14 mesi per la mancanza di componenti».

Per il presidente di Confindustria Alto Adriatico la visione ideologica del modello di sviluppo che ha portato il Paese a questo punto, a nodi che sono giunti pericolosamente al pettine, alla tempesta, l’ha definita, quasi perfetta. «Il parlare ossessivo di “green economy” – osserva ancora Agrusti – riconduce a questo: inutile parlare di riconversione digitale se mancano le materie prime per produrre i macchinari sofisticati che ci consentiranno di farlo. Se manca l’hardware non andiamo da nessuna parte. E, come al solito, in Italia, si passa da un estremo all’altro. La transizione verso l’elettrico troppo rapida – siamo di nuovo nel segmento automotive – rischia di sacrificare 1,2 milioni di posti di lavoro. Tenuto poi conto che per i prossimi dieci anni circa l’80% dei componenti per le batterie delle automobili saranno cinesi». Con tutte le conseguenze geopolitiche e strategiche del caso.

Concettualmente, secondo Agrusti, la soluzione, temporanea e palliativa, deve mutuare l’appello/imposizione che Ursula von der Leyen ha rivolto ai produttori di vaccini europei, esortati a supportare prioritariamente i cittadini del Vecchio Continente: «dobbiamo chiedere ai produttori europei di semilavorati, a coloro i quali hanno disponibilità di materie prime, di soddisfare anzitutto l’esigenza del manifatturiero interno. E in Italia ci sono alcune realtà come il legno che potrebbero, nella sola fase emergenziale, privilegiare i produttori italiani anziché quelli esteri. Senza inseguire la speculazione».

La soluzione immediata, secondo Agrusti, è cercare quest’incrocio virtuoso adottando parallelamente tra le istituzioni, strategie emergenziali governabili a livello regione/nazione: «a chi sta predisponendo il “Recovery plan”, accanto alle politiche ecologiste, va chiesto di progettare e costruire le infrastrutture per creare l’hardware necessario alla riconversione digitale. Occorre un’assunzione immediata di responsabilità da parte dell’Europa. Altrimenti diventeremo un’appendice della Cina o fratelli minori degli Usa».

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