Cgia: ogni anno la spesa pubblica italiana è di quasi 700 miliardi in più del “Recovery fund”

Al netto degli interessi, la spesa pubblica nazionale ammonta a 900 miliardi di euro, il 91% di tipo corrente con le briciole destinate allo sviluppo e agli investimenti.

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La ripresa economica italiana è legata ai 211 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione Europea con il “Recovery Fund”: risorse importantissime che il Paese sarà chiamato ad investire entro il 2026, anche se, come evidenzia l’Ufficio studi della Cgia, non si deve dimenticare che ogni anno, al netto degli interessi sul debito, la spesa pubblica italiana si aggira attorno ai 900 miliardi di euro: quasi 700 miliardi in più rispetto alle risorse che si dovranno spendere in 6 anni con il “Recovery Fund”.

Una spesa, quella pubblica, che per oltre il 91% è di parte corrente e viene utilizzata per liquidare gli stipendi dei dipendenti pubblici, per consentire i consumi della macchina pubblica e per pagare le prestazioni sociali. Lasciando le briciole per lo sviluppo e gli investimenti.

Ora, affidare tutte le aspettative di crescita italiane alla “riuscita” del “Recovery Plan” è una cosa estremamente giusta e doverosa, ma è altrettanto determinante che il prossimo Governo intensifichi l’attenzione anche su come impiegare ogni anno questi 900 miliardi di euro e attivi, in misura più incisiva di quanto è stato fatto fino a ora, un sistema di monitoraggio più attento e oculato della spesa pubblica che non sempre è indirizzata nel migliore dei modi.

Oltre ad avere una spesa pubblica intrisa di sprechi e di sperperi spesso clientelari, l’Italia ha un triste primato europeo: il Paese fa estremamente fatica ad elaborare delle previsioni di crescita economica attendibili. Nell’ultimo rapporto annuale dell’European Fiscal Board (organo consultivo indipendente della Commissione Europea), pubblicato nell’ottobre 2020 (quarto rapporto annuale), è riportata un’analisi sulle differenze tra la crescita effettiva del Pil e le proiezioni presentate nei programmi di stabilità e convergenza durante il periodo 2013-2019.

Dal rapporto emerge che rispetto ai Paesi dell’Area Euro, l’Italia presenta il risultato più critico: le previsioni di crescita sono risultate essere alte in tutti e 7 gli anni presi in esame (2013-2019). Dopo l’Italia, si posizionano 5 paesi che hanno stimato previsioni più elevate in 5 anni su 7: Belgio, Spagna, Francia, Lettonia e Slovacchia.

Il risultato dell’Italia è altresì critico sul fronte dell’errore medio delle previsioni; in questo aspetto negativo, il Paese risulta secondo solamente alla Slovenia, con un errore medio annuo di stima pari all’1,3% del Pil nominale; tale discrepanza si traduce in un impatto sul bilancio delle amministrazioni pubbliche di oltre lo 0,5% del Pil all’anno (in 7 anni circa 60 miliardi di euro sul bilancio della pubblica amministrazione).

La Cgia evidenzia inoltre una forte incongruenza emersa proprio in queste ultime settimane. A solo un mese dall’approvazione della legge Finanziaria 2021 da 40 miliardi di euro, il Parlamento la settimana scorsa ha votato un nuovo scostamento di bilancio da 32 miliardi di euro. Non essendo successo pressoché nulla di nuovo rispetto ai mesi scorsi, per quale ragione non si è deciso di anticipare questo scostamento nella legge più importante che viene approvata ogni anno? Per caso, questa decisione di rivedere la spesa pubblica è il frutto dello stato di incertezza in cui versava sul fronte economico il governo BisConte? Già, bella domanda.

Nella bozza del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (il “Recovery Plan” italiano), approvato dal Consiglio dei ministri il 12 gennaio scorso, si evince che dei 210,9 miliardi di euro che l’Unione Europea metterà a disposizione del nostro Paese con il “Recovery Fund”, 65,7 miliardi verranno spesi per “progetti in essere”, ovvero già previsti, mentre i restanti 145,2 miliardi andranno a finanziarenuovi progetti”. Pertanto, nel 2026 la crescita del Pil, anno in cui si concluderà l’azione del Piano europeo, dovrebbe essere più alta di 3 punti percentuali rispetto allo scenario che si verificherebbe senza l’effetto degli investimenti aggiuntivi.

Ciò vuol dire che a fronte di 145,2 miliardi di investimenti in conto capitale, al termine del programma si avrebbe un aumento del Pil di poco inferiore ai 60 miliardi di euro. Queste cifre, per stessa ammissione del Governo, dicono che la redditività di questi impieghi sarà molto contenuta. In altre parole, secondo la Cgia, nel 2026 il Paese avrà speso oltre il doppio di quantotornerà” dalla realizzazione di queste opere pubbliche. Probabilmente, perché la qualità degli interventi che si andranno a realizzare avrà una ricaduta economica e sociale molto bassa. Se anche in questo caso fosse confermata la specificità dei precedenti esecutivi italiani nel sovrastimare la crescita, nel 2026 la realtà sarà ancora più sconfortante di quanto prevista nel Piano.

La conclusione appena descritta dall’Ufficio studi della Cgia – tanti investimenti, ma poca redditività – è solo un’ipotesi, visto che nel “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, approvato il 12 gennaio scorso, non sono riportati in maniera dettagliata gli interventi che verranno realizzati con questi 145,2 miliardi di euro. Il Piano, infatti, appare ancora moltofumoso”: ad oggi, è costituito da una elencazione di linee generiche di intervento a cui sono state affiancate delle cifre. 

Ma, come previsto dalle ultime linee guida, Bruxelles ha stabilito queste risorse verranno erogate solo se si faranno le riforme (giustizia, fisco, concorrenza, etc.) e se per ogni opera in programma saranno dettagliati con grande precisione chi fa cosa, come la fa, in quanto tempo e quanto costerà realizzarla. Senza un governo pienamente in carica e a soli 3 mesi dalla scadenza della consegna del Piano, non sarà per nulla facile portare a casa queste risorse. E anche per il futuro governo, TerConte o meno, le cose non saranno affatto facili, complice l’aver sempre trascurato e rimandato la scadenza delle scelte più forti dell’azione politica nazionale. Con il conseguente illanguidimento dell’economia nazionale, unico grande Paese ancora sotto il livello di Pil ante crisi finanziaria del 2008.

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