Figli e figliastri del BisConte e della maggioranza di governo delle quattro sinistre: con la legge di Bilancio 2021 appena approvata è salito a 3,8 miliardi l’importo a disposizione del fondo per il rinnovo del contratto di lavoro degli statali. Considerando gli effetti che questa decisione avrà anche sui dipendenti delle amministrazioni periferiche, si raggiunge una disponibilità di spesa complessiva pari a 6,7 miliardi di euro: il 26% in più di quanto erogato a tutti i lavoratori del pubblico impiego nell’ultimo rinnovo firmato nel 2018.
La Cgia di Mestre lancia una provocazione che tale non è ma un drammatico richiamo alla realtà di figli e figliastri: se, con lo stesso “slancio”, fossero riconosciute alle attività economiche che sono state costrette a chiudere per decreto o per DPCM sia le perdite di fatturato registrate l’anno scorso sia un contributo aggiuntivo del 26%, lo Stato dovrebbe conferire a questi imprenditori e professionisti colpiti dal Covid-19 poco più di 250 miliardi di euro: un importo che sfiora la somma degli stanziamenti previsti dal “Next Generation UE” e dalla legge di Bilancio per il 2021.
Secondo la Cgia, fino ad oggi, a causa della pandemia, tutte le attività economiche hanno ottenuto dall’esecutivo – al netto delle agevolazioni in materia di credito e dell’effetto dello slittamento di alcune scadenze fiscali – solo 29 miliardi di euro di aiuti diretti. Davvero poche briciole.
Qualcuno potrebbe giudicare questa comparazione tra dipendenti pubblici e lavoratori autonomi insensata e, soprattutto, irriverente nei confronti dei primi che sono in attesa del rinnovo del contratto di lavoro. Obiezioni, queste ultime, in parte condivisibili. Tuttavia, con questa forzatura la Cgia vuole mettere in luce come una parte importante dell’economia italiana – costituita da almeno 5 milioni di artigiani, commercianti, esercenti, albergatori e lavoratori autonomi – abbia subito perdite consistenti a causa delle chiusure imposte per decreto dal governo BisConte, non abbia beneficiato di indennizzi adeguati, sebbene da sempre non possano contare su alcun ammortizzatore sociale e sicurezza del posto di lavoro come accade per i lavoratori del pubblico impiego che hanno pure mantenuto inalterato il loro reddito. Insomma, la conferma di figli e figliastri.
Senza contare che tra i lavoratori del comparto pubblico è stata molto elevata la quota di coloro che in questi mesi di pandemia ha potuto sperimentare il lavoro da remoto, riuscendo a conciliare meglio il lavoro (non sempre con i risultati sperati causa la disorganizzazione di molte amministrazioni e la carenza di collegamenti a banda larga) con gli impegni familiari e il tempo libero, beneficiando anche dell’azzeramento dei costi di trasporto e di quelli legati alla pausa pranzo.
«Le crisi economiche – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – non sono mai democratiche. Anche questa volta, infatti, a pagare il conto più salato saranno le persone più fragili, come le donne e i giovani. E se questi ultimi sono anche titolari di una partita Iva, i disagi aumentano esponenzialmente. Per questo motivo è giunto il momento di creare una rete di protezione sociale finalmente universale che coinvolga tutti: lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti sia del pubblico che del privato. Sia chiaro, questa strada va perseguita senza togliere le garanzie già acquisite dai lavoratori subordinati, ma allargando le tutele anche a coloro che ne sono attualmente sprovvisti, utilizzando, in prima battuta, le risorse che si spenderanno per il “cashback”. Un provvedimento, questo, che assume sempre più i contorni di una vera iattura. Nei prossimi 2 anni costerà alle casse dello Stato quasi 5 miliardi di euro che scandalosamente saranno regalati alle persone più ricche. Risorse, invece, che sarebbero da utilizzare per sostenere le tante partite Iva che a causa del Covid e delle chiusure imposte per decreto rischiano di abbassare definitivamente la saracinesca».
L’Ufficio studi della Cgia segnala che l’ultimo contratto siglato dai dipendenti pubblici è stato firmato nel 2018 ed ha interessato il triennio 2016-2018. L’accordo è arrivato dopo quasi un decennio di blocco degli stipendi imposto per legge. Analizzando l’andamento della retribuzione lorda media nel pubblico impiego, si evince, che tra il 2010 e il 2019 l’incremento è stato del 4% (l’inflazione, invece, nello stesso periodo è salita del 10,5%). Se in questo decennio gli aumenti contrattuali a causa del blocco non hanno subito aumenti significativi, nel quindicennio precedente (1995-2009) l’innalzamento della spesa fu esponenziale: +72% contro una crescita media dell’inflazione del 40%. A seguito di questa impennata dei costi delle retribuzioni dei lavoratori del pubblico impiego, il Governo Berlusconi IV e successivamente anche gli esecutivi Monti, Letta e Renzi decisero di sterilizzarne gli aumenti per quasi 10 anni, con l’obiettivo, in parte raggiunto, di frenare la spesa pubblica di natura corrente.
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