Parlare di fallimento di “Quota 100” non è fuori luogo: i dati sulle uscite anticipate lo confermano. Nel primo semestre del 2020 sono state meno di un terzo le domande presentate per andare prima in pensione, rispetto a quelle accolte nell’intero 2019. In Italia, da gennaio a giugno 2020 sono state avanzate 47.810 domande, a fronte delle 228.829 presentate nel 2019, di cui 150.768 accolte.
Come interpretare questa tendenza? «La principale ragione del disinteresse verso questi ammortizzatori sociali è probabilmente la penalizzazione sull’assegno finale, che in alcuni casi arriva a sfiorare il 15% della pensione – afferma il presidente di Confapi Padova, Carlo Valerio -. Una decurtazione percepita come particolarmente pesante in questo momento storico di profonda incertezza. Il punto è che “Quota 100” fa il paio col reddito di cittadinanza: è una misura nata per motivi squisitamente elettorali. È stata la risposta ideologica a un problema che comunque c’era e andava affrontato, ma non in questo modo».
In Veneto come è stata accolta “Quota 100”? Qui occorre dire che i dati disaggregati forniti dall’Inps – analizzati da Fabbrica Padova, centro studi di Confapi – si fermano al 31 dicembre 2019, ma in Veneto attestano comunque una tendenza chiara, ovvero di una misura che ha avuto scarsa presa: solo 3,24 persone ogni mille abitanti hanno presentato domanda per “Quota 100” all’Inps, a fronte di una media nazionale di 3,78. Soltanto in Trentino (2,89 ogni mille) e Lombardia (3,05) si sono registrate medie peggiori. 15.906 le domande presentate in regione (di cui 10.796 accolte): sono il 6,95% delle domande avanzate nel complesso in Italia, a fronte di una popolazione di 4.905.037 persone. E anche questa percentuale è significativamente bassa, se si considera che il Veneto conta l’8,11% dei 60.483.973 cittadini che abitano la Penisola.
«La riforma Fornero era indispensabile, ma conteneva un baco, ovvero l’aver lasciato per strada moltissime persone che avevano un’età critica e che il giorno prima sarebbero potute andare in pensione e il giorno dopo rimanevano escluse – prosegue Valerio -. Quelle persone avevano il diritto di ricevere risposte. Il problema è che la risposta è stata sbagliata: c’era il caso degli “esodati”? Dovevamo affrontarlo direttamente, senza fomentare le aspettative che sono state create con questa misura».
Non è un caso che le uscite con un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne siano ferme a 79.093 in giugno (-17%), ma siano comunque quasi il doppio di quelle passate per “Quota 100”. «Oggi è giusto che “Quota 100” vada alla sua naturale scadenza, ma almeno che se ne riconosca il fallimento e si cerchino soluzioni diverse, anche perché esiste un altro dato di cui tener conto: nel 2020 la spesa per le pensioni toccherà il 17% del Pil, nuovo record di sempre – puntualizza Valerio -. Lo ha attestato la Ragioneria generale dello Stato nel consueto Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo, evidenziando come la spesa correrà sopra il 16% fino alla vigilia del 2050. Il Bollettino economico della Banca Centrale Europea pubblicato lo scorso mese di luglio, non per niente, dal canto suo ha sottolineato i rischi per un eventuale nuovo abbassamento dei limiti della pensione da parte dei legislatori dell’Eurozona. Alla luce di tutto ciò, possiamo davvero permetterci di abbassare i requisiti contributivi, come più di qualcuno propone? E chi pagherà queste pensioni? Alla prova dei numeri, “Quota 100” si rileva, contemporaneamente, una beffa per chi maturerà i requisiti al 1° gennaio 2022 (e che quindi sarà escluso dal beneficio) e un guaio per i giovani che invece di essere chiamati al lavoro in misura di tre nuovi assunti per ogni neopensionato (come si sbandierava quando è stata introdotta), entreranno in misura minore rispetto ai lavoratori in uscita e saranno costretti a pagare loro stessi queste pensioni anticipate».
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