Ad inaugurare la Biennale Teatro, al Teatro Goldoni di Venezia, è stata invitata Mariangela Gualtieri, una delle voci più autorevoli della poesia non solo italiana, oltre che attrice ed autrice, la quale, a partire dagli anni ‘80, è uno dei maggiori punti di riferimento per chiunque si avvicini alla scrittura, non solo per il teatro.
Fondatrice, insieme al regista Cesare Ronconi, del teatro Valdoca, «nostro gabinetto poetico/scientifico di setacciamento del mondo – scrive di suo pugno nel catalogo – covo in cui atterravano e ancora atterrano spiriti affini e dove iniziavamo la nostra avventura amorosa, conoscitiva e teatrale».
Voce che apre (libro sonoro) è un lungo poema, recitato con pause, della durata approssimativa di 50 minuti. Il prologo, “A tutti i morti di questo tempo”, con un sottofondo musicale di canto monodico, è un ricordo/preghiera indirizzato alle vittime della pandemia da Coronavirus. A piedi nudi, la bocca vicina al microfono, un abito pensato e realizzato apposta, Gualtieri sembra una bella persona, che con semplicità e fermezza cattura l’attenzione di chi la ascolta.
La prima parte si apre con “adorazione della parola”, che si dispiega in tre fasi: 1. Ti amo parola; 2. Ti chiamo parola; 3. Nel silenzio. Segue la “parentesi ritmica 1 – Voce della terra”, recitata in un musicale, pur se difficile da comprendere, dialetto romagnolo.
La seconda parte esordisce con “Nove marzo duemilaventi”, il ricordo di dover rimanere a casa come bambini che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa, e non avranno baci, non saranno abbracciati. Speranzoso l’epilogo: A quella stretta di un palmo col palmo di qualcuno, a quel semplice atto che ci è interdetto ora – noi torneremo con una comprensione dilatata. Più delicata la nostra mano sarà dentro il fare della vita. Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro.
Il secondo testo, “A quelli che nascono ora” si interroga su che cosa diremo a quelli che nascono ora? Che scusa troviamo per questo disastro umano? Si prosegue con la “parentesi ritmica 2 – Voce della terra”. Senza leggere, Gualtieri declama poi “Lettera dal presente”, indirizzata agli amici, da parte di una persona che avverte di essere prossima alla morte.
Il penultimo testo, “L’animale che siamo”, dorme male – è atterrito e vede il più folle passo che ci attende, lo spalancato abisso che ci chiama. Si respira un rimorso per come l’uomo tratta gli animali, fino alla conclusione: Benvenuto, dolore. Mio animale. Guidami tu – ora.
Il poema si conclude con “Veni creator spiritus”, un inno e un richiamo all’amore visto come forza salvifica. Vieni Amore. Dentro le nostre teste malate. Vieni a darci pace. Solo per te salivamo dal primate, solo per te ci era data voce, parola e mano articolata. Solo per te Amore. Patria nostra tradita.
Uno spettacolo faticoso, “Bye Bye” di Alessio Maria Romano, allestito al teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia sempre per la Biennale Teatro. Difficile, da capire e da spiegare. Uno dei quattro giovani attori, Isacco Venturini, elegantemente vestito di nero, intrattiene e saluta gli spettatori che stanno cercando il loro posto in sala, attraverso la musica. Canta una canzone, un noto standard Jazz, “Bye Bye Blackbird”, di Ray Henderson e Mort Dixon, con una voce flebile, infantile, alla maniera di Chet Baker, che ne fu uno degli interpreti più famosi. Ad un certo punto, quando tutti sono entrati, il morbido suono della chitarra elettrica, unico strumento utilizzato, cessa. Buio in sala, a parte una luce che inquadra l’attore che lentamente si spoglia. Rimane in mutande, guarda per un attimo i genitali. Subito si riveste con una maglietta e pantaloncini corti ed esce di scena. Buio totale. Quattro scatenati danzatori entrano correndo – oltre a Venturini, Andrea Rizzo, Valerie Tameu e Filippi Porro – accompagnati da una terribile musica techno, assordante, che infastidisce l’orecchio più delicato. Quando si muovono insieme, fanno gli stessi movimenti. Ognuno in seguito ha però uno spazio solistico. Venturini ricanta per tre volte il medesimo tema. La prima, con la medesima voce esile, che si fa roboante nella seconda. Da ultimo, lo interpreta alzando la tonalità e senza accompagnamento strumentale.
Entra una quinta danzatrice, non propriamente giovane, Ornella Balestra. Venturini, come morso da una tarantola, si scatena verbalmente in uno sfogo catartico. In alto si legge una frase di Lenny Bruce, comico americano degli anni’50: The Truth is what it is. What it should be is a dirty Lie (la verità è ciò che è. Ciò che dovrebbe essere è una sporca menzogna). Si diffondono una nota canzone della Disco-Music, “Love to love you baby”, portata al successo da Donna Summer, “Come Together” dei Beatles, fino ad un’ennesima, stavolta ultima, versione di “Bye Bye Blackbird”. Le luci si spengono. Lascio la chiave di lettura all’autore.
«Bye Bye nasce come una creazione collettiva in cui io e la drammaturga Linda Dalisi abbiamo semplicemente messo insieme i pezzi. Si tratta di frammenti che fotografano differenti possibilità, a cui viene però negata qualsiasi completezza, come accade a quei libri, film, spettacoli, quadri, idee, a cui la censura ha sottratto il diritto a essere compiuti. Dov’è la logica che spiega questa mutilazione? Da dove nasce questo terribile potere? “Bye Bye” è un concerto in cui la musica la fanno i cinque performer, che insieme all’intera squadra tecnica e artistica hanno messo a disposizione le loro storie e le loro azioni per un atto di scelta e ricordo. “Bye Bye” è un omaggio a tutte le donne e a tutti gli uomini che il potere di turno ha nascosto ed eliminato, ‘bucando’ le loro vite in nome di un’idea di “giustizia”. Un concerto per tutti noi che cerchiamo disperatamente di colmare i nostri buchi e di costruire». Applausi convinti ad un quintetto che si è mosso con eleganza e forza per tutta la durata del lavoro.
Si ritorna al Goldoni per seguire “Eh!Eh!Eh! Raccapriccio” della compagnia AstorriTintinelli, fondata nel 2002 da Alberto Astorri e Paola Tintinelli, una coppia secondo Franco Quadri che si autoproduce per scelta “fuori dai circuiti ufficiali e dagli schemi drammaturgici tradizionali”. Viene definita dalla critica militante come “la coppia cult dell’Underground milanese”.
Due uccelli, un maschio interpretato da Paola e una femmina da Alberto, rappresentano due creature che si confrontano, tra raccapriccio e orrore, sulla caducità della vita. La coppia di autori/attori si è ispirata ai “fiori del male” di Charles Budelaire, per dar vita ad uno spettacolo dall’aurea luciferina, ebbra. «Ci immaginiamo un luogo che ricordi uno spazio sacro, su cui incombe un’atmosfera di mistero e di crepuscolo».
Lungo 70 minuti, i pennuti vengono gettati da una tempesta sulla spiaggia. Il maschio tenta di alzarsi. La femmina partorisce un uovo. Lo portano al tempio e lo venerano come un dio. Nel corso di un lungo girovagare, escono diverse riflessioni. «I rimorsi sono la causa della nostra tristezza. Più crudele della morte è diventare vecchi», finché la speranza finalmente muore, quando si scopre che l’uovo, rompendosi, è sterile. «E’ tempo di tornare al sacrificio degli antichi: ucciderne uno per purificarne cento. Fin dalla nascita nel male si trova la voluttà». Si va avanti così, finché un urlo pone fine alla “maledetta recita”. Brava e spiritosa nello stesso tempo, la coppia ottiene il gradimento del pubblico che spesso, divertito, ride sonoramente.
Sempre al Goldoni assisto a “Dentro (una storia vera, se volete)”, prima assoluta di un testo scritto da Giuliana Musso, che ne è l’interprete assieme ad Elsa Bossi, oltre a curarne la regia. Definita spesso “esponente di un teatro di narrazione che a volte confina con quello d’inchiesta”, nel suo teatro, sostiene Latella, tutto parte dall’indagine, intesa come ricerca, necessità, come l’opera di un detective di una storia, come raccolta di prove, testimoni e testimonianze nascoste agli occhi di molti e che lei cerca, con ferrea parsimonia, di riportare alla luce.
“Dentro” parte da un fatto di cronaca, un abuso sessuale su un minore, in famiglia. Una verità taciuta per anni, che lotta per uscire allo scoperto. Per la sua indagine, la Musso lo porta sul palcoscenico, anche grazie al contributo di un magistrato.
Un’esperienza difficile da ascoltare. Una madre, già in crisi con il marito, che di punto in bianco se n’è andato di casa, scopre la peggiore delle verità. Una figlia che odia la madre. Un padre innocente fino a prova contraria.
«In tutte le vicende di abuso sui minori che ho conosciuto per voce delle vittime, nessun colpevole è stato mai condannato. La violenza sessuale è un segreto che permane tutta la vita dentro alle case, agli studi dei medici, degli psicoterapeuti o degli avvocati, in quelle dimensioni private in cui le vittime possono restare confinate senza venire riconosciute. I fini compassionevoli del segreto quasi sempre si fondono con quelli vergognosi della censura e con quelli inconsci del tabù. “Dentro” non è un lavoro sulla violenza, ma sull’occultamento della violenza. “Dentro” è un piccolo omaggio teatrale alla verità dei figli».
In tredici capitoli, per novanta minuti in totale, La Musso e la Bossi si parlano e si scontrano alla ricerca di una verità che non riuscirà, nonostante gli sforzi, ad emergere. Lunghi applausi di stima per la professionalità e la bravura a tenere in mente un testo così impegnativo.
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